«NONOSTANTE L'OK DELLA CENSURA IL TRANS RIMA HA FATTO SCANDALO»
In Iran l'omosessualità bandita dalla legge e la sodomia punita con la condanna a morte
domenica 28 settembre 2008 , di Liberazione

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Sharareh Attari
La regista Iraniana Sharareh Attari

fonte: Liberazione del 28 settembre 2008

di Giuliano Battiston

Teheran - Prendiamo un paese, come l'Iran, in cui il cortocircuito vizioso tra il piano legale e quello religioso produce degli obbrobri giuridici: l'omosessualità bandita dalla legge e la sodomia punita con la condanna a morte. E una giovane regista, di trentadue anni, che dopo aver realizzato un documentario sull' Ashura , il rito religioso con cui gli sciiti commemorano la morte dell'imam Hossein, decide di girarne uno sui transessuali iraniani, sfidando la censura governativa e i pregiudizi della società. Ne uscirà un distillato, potenzialmente esplosivo, di storie personali, drammi esistenziali, orientamenti culturali cristallizzati in preconcetti, contraddizioni tra dimensione pubblica e privata. Gahi Etefagh mee-oftad ( A volte succede ), della regista iraniana Sharareh Attari, è tutto questo: uno scandaglio gettato nel fondo della società iraniana, alla ricerca di quanto si vorrebbe rimuovere, tenendolo il più possibile lontano dagli occhi dei benpensanti. Ed è insieme l'invito a ripensare le proprie convinzioni, mettendo in discussione ciò che si dà per scontato. Com'è successo alla stessa Sharareh Attari, che per realizzare Gahi Etefagh mee-oftad ha dovuto affrontare non solo il temuto ministero della Cultura e dell'Orientamento islamico, simbolo e strumento del più rigido conservatorismo, ma innanzitutto i propri pregiudizi, forse meno temuti ma altrettanto forti. «Prima di cominciare a lavorare al film - ci racconta la regista - non avevo mai avuto contatti con persone transessuali. E devo ammettere che la mia educazione mi portava a tenermene lontana e a diffidarne. Poi, però, per pura coincidenza ho cominciato a frequentare Sheideh e Rima, i due personaggi di cui racconto nel documentario, e quella frequentazione mi ha spinto a rivedere l'idea negativa che avevo dei transessuali. Tanto ho cambiato io stessa il mio atteggiamento che alla fine, accorgendomi dei miei pregiudizi, mi sono sentita in qualche modo in dovere di fare qualcosa per modificare quelli della società iraniana, e ho deciso di lavorare su questo tema realizzando Gahi Etefagh mee-oftad ».

Un film nato per caso, dunque, che senza reticenze e in modo diretto, quasi didascalico, ricostruisce la storia di Amir, «un ragazzo che sin dall'infanzia sente di essere naturalmente portato ad assumere atteggiamenti femminili, che però è costretto a nascondere, insieme ai suoi veri sentimenti. Finché un giorno, quando compie ventuno anni, decide di uscire allo scoperto, rivelando le sue naturali preferenze sessuali. Così dichiara di voler essere considerato una ragazza e si convince dell'opportunità di sottoporsi a un'operazione che gli permetta di cambiare sesso». Sulla base di una fatwa emessa dall'ayatollah Khomeini in un testo redatto in arabo nel 1963, in Iran vige infatti una norma che consente agli uomini che vogliono diventare donna e alle donne che vogliono diventare uomini di ricorrere alla chirurgia, assicurandogli inoltre la possibilità di adottare anche legalmente un diverso nome (tanto che Amir deciderà di chiamarsi prima Rima e poi di nuovo Taraneh), laddove il sesso con cui sono nati contraddice la propria individualità. «Contrariamente all'omosessualità, la legge islamica iraniana non considera la transessualità un tabù - spiega Sharareh Attari -. Dal momento che i transessuali identificano il proprio vero genere sessuale in senso opposto rispetto a quello con cui sono nati, l'ayatollah Khomeini ha sostenuto che non vanno considerati omosessuali, e quindi non sono colpevoli del reato di omosessualità: per i transessuali le proprie relazioni sono vissute come quelle tra un uomo e una donna, anche se avvengono tra persone dello "stesso sesso". E' per questa ragione che la legislazione iraniana non vieta le operazioni chirurgiche».

Una legge importante, dunque, che ha permesso a molti iraniani, e a diversi musulmani provenienti dai paesi del Golfo dove l'interpretazione sunnita non lo permette, di cambiare sesso. Ma una legge che in Iran continua a essere controversa, animando il dibattito all'interno del clero sciita - molto meno compatto di quanto ci aspetteremmo su questa e molte altre questioni -, finendo con il produrre negli ultimi anni una radicalizzazione delle posizioni tra quanti, come lo stesso ayatollah Khamenei e l'hojatoleslam Muhammad Mehdi Kariminiya (si veda l'intervista rilasciata a Farian Sabahi in Un'estate a Tehran , Laterza 2007), ribadiscono la correttezza del giudizio di Khomeini, e coloro che invece riconducono la transessualità alla "perversione sessuale", come i clerici Bahjat e Tabrizi. Ed è proprio per dimostrare quanto sia pericolosa la nozione di "perversione sessuale", che in Iran come altrove viene usata strumentalmente per condannare tutto ciò che eccede o viola la presunta "normalità", che Sharareh Attari ha portato avanti con testardaggine il suo progetto, nonostante le difficoltà incontrate.

«La realizzazione del film - ci racconta - è stata molto più lunga del previsto, circa tre anni, a causa dei problemi finanziari che ho dovuto affrontare. Alla fine comunque sono riuscita a mettere insieme i soldi sufficienti per finirlo, e alcune clip sono state acquistate a un prezzo simbolico dal Centro per i documentari».

Durante la lavorazione, in pochi si dicevano pronti a scommettere che un documentario del genere avrebbe potuto ottenere il permesso delle autorità: «I miei stessi amici, nonché tutti i miei colleghi, credevano non solo che non avrei mai ottenuto l'autorizzazione, ma che sarei stata incriminata per aver deciso di lavorare su questo soggetto. E devo dire che anch'io sono stata piuttosto sorpresa di aver ricevuto un'approvazione ufficiale». I custodi della morale islamica hanno però pensato bene di proteggere il grande pubblico da una visione per cui ritengono evidentemente che sia ancora "immaturo", concedendo un'autorizzazione limitata ai festival locali e ad alcuni eventi culturali, frequentati solo da una ristretta cerchia di persone. E alla limitazione governativa si è aggiunto il timore degli organizzatori culturali iraniani: «Molti festival locali e diversi cinema - spiega Sharareh Attari, che prima di dedicarsi al cinema come regista e produttrice ha lavorato anche nel teatro come attrice - hanno rifiutato di presentare il mio documentario, nonostante il permesso da parte del Ministero. Non posso nascondere che quest'atteggiamento mi ha sconfortato profondamente. Sono però soddisfatta che il film sia stato nominato come miglior documentario e come migliore regia nel corso dell'Iranian Film Festival, e che, per quanto ne sappia, abbia funzionato un po' da apripista in questo genere. Oggi infatti sono diversi i registi che lavorano sullo stesso argomento, e credo di poter attribuire questa nuova ondata al successo del mio lavoro».

Un successo conquistato lentamente, attraverso il realismo e l'immediatezza delle immagini di Gahi Etefagh mee-oftad , e che si è alternato alle feroci critiche di chi ritiene che la vita dei transessuali non debba neanche essere raccontata. In occasione del debutto, avvenuto presso la Khane-ye Honarmandan (Casa degli Artisti) di Tehran, alla fine della proiezione si è aperta la sessione delle domande da parte del pubblico, ed è subito scoppiato un piccolo incidente: «alcuni spettatori hanno tuonato con veemenza contro il documentario e hanno sollevato dei dubbi etico-morali, chiedendo ragione della decisione presa dal ministero di concedere l'autorizzazione al film e chiedendone la messa al bando».

Con la seconda proiezione, presso la Khane-ye Sinema (Casa del Cinema) di Tehran, Gahi Etefagh mee-oftad ha però avuto un'accoglienza calorosa e gratificante, e Sharareh Attari ha capito che aveva colpito nel segno: «Le persone che hanno assistito alla proiezione hanno detto che il mio film li aveva resi consapevoli di alcune pregiudizi che neanche sospettavano di avere. Che gli aveva fatto finalmente capire quanto sia difficile la vita dei transessuali in Iran». E che la vita dei transessuali iraniani sia difficile, a partire dalla difficoltà di trovare un lavoro, lo dimostra la vicenda della protagonista, Rima, che anche dopo l'operazione non sembra trovare l'equilibrio a lungo inseguito: il padre infatti l'abbandonerà senza ripensamenti, la madre smetterà di frequentarla regolarmente, la sorella preferirà evitarla per non compromettere la propria relazione col marito, mentre i nuovi compagni di Rima, non appena saputo del suo passato, decideranno di lasciarla. «Oggi - racconta Sharareh Attari - Rima vive in un appartamento in affitto, sola e lontana dalla sua famiglia. E ogni giorno è per lei difficile quanto prima: un'avventura senza fine e senza speranze alla ricerca di un uomo che la possa amare per quello che è».

In una società che si dimostra «intollerante nel suo complesso, e in cui sfortunatamente anche le famiglie dei transessuali dimostrano di esserlo, l'operazione non rappresenta affatto il lieto fine della storia », sostiene Sharareh Attari. Alla possibilità di sottoporsi a un'operazione chirurgica dovrebbe infatti aggiungersi «un supporto vero e sincero da parte delle famiglie, degli amici, e soprattutto da parte della società. I transessuali - conclude la giovane regista iraniana - rimarranno vittime della società fino a quando il pregiudizio culturale nei loro confronti non verrà meno».

Vale per l'Iran, ma anche per l'Italia.

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