Il
maschile e il femminile che è in noi e il confronto con gli stereotipi di
genere
di
Alessia Bellucci
E’
bambino o bambina? La creazione della differenza di
genere.
“E’
un bambino o una bambina?”, questa è
la prima domanda che ci si pone a ogni nuova nascita. E una rapida
occhiata ai genitali di solito fornisce la risposta.
Si
incontra una persona per la prima volta e probabilmente in modo inconscio si fa
caso in modo automatico se si tratta di un maschio o di una femmina. Se non si
riesce a capire, ci si può sorprendere a cercare indizi. Per chissà quali
ragioni, sembra una cosa importante da sapere.
Nella
nostra società e in molte altre il modo di percepire e considerare
l’esistenza di uomini e donne è
analogo al modo di percepire e considerare gli alberi, le nuvole, il mare e
altri fenomeni naturali.
Secondo
questa idea al mondo vi sono due gruppi, due tipi di esseri umani che si
distinguono in base ad alcune caratteristiche fisiche riconducibili in ultima
istanza alla diversa conformazione dei loro organi sessuali, dalle quali
originano altre caratteristiche mentali, psicologiche, di
condotta.
Da
quella risposta, che deduciamo da un rapido sguardo ai genitali, dal semplice
marcare con una crocetta la casella
M o F del certificato di nascita, sarà decisa una gran quantità di cose sul
destino di quella persona. Sarà deciso quali saranno i suoi giochi e i suoi
interessi, le sue emozioni, i suoi atteggiamenti, come dovrà comportarsi nelle
occasioni sociali, chi dovrà amare e come, che ruolo dovrà assumere nella
coppia. Il tutto sarà declinato, dedotto dal fatto di appartenere a uno dei
sottogruppi che il consorzio umano ha costruito sulla base non dell’apparato
genitale, badate bene, ma della sua apparenza morfologica
esterna.
A
tutti noi il genere, e l’essere M o F, declinato in modo dualistico, senza
soluzioni intermedie, si impone come evidenza. Diventa una nozione di senso
comune, quel sapere accessibile, informale al quale si accede per il fatto
di appartenere a una determinata cultura. Esso è circolare nelle sue tecniche di
legittimazione, cioè pensare il maschile e il femminile in questo modo va bene
perché così il genere viene pensato da
tutte le persone dotate di buon senso; non ha bisogno di organizzarsi in
dottrine e dogmi, ma si organizza in espressioni gnomiche e abilità
contestuali; è un sapere pratico, il cui oggetto è considerato
immediatamente comprensibile.
Appartiene
al senso comune della nozione di sesso/genere il ritenere che questa nozione
poggi sulla natura delle cose.
Di
che tipo è l’opposizione concettuale uomo donna?
La
coppia maschio-femmina, in questa prospettiva, forma una opposizione polare,
o binaria, o dualistica. La principale caratteristica di questo tipo di
opposizione è che ciò che appartiene a una delle polarità non appartiene
all’altra. Uomini e donne stanno tra loro in una relazione come l’acqua e il
fuoco, la terra e l’aria che sono tra loro contrapposti. L’idea di
innato si coniuga con quella
dell’esclusività, ciò che è mio non può appartenere anche a te. Quel che
ci rende esseri umani passa prima di tutto attraverso ciò che ci fa essere
uomini o donne, il riconoscimento di se come esseri umani sessuati. Siamo prima
sessuati e poi umani e non prima umani e poi eventualmente sessuati. La forma
maschile o femminile degli organi sessuali è ritenuta determinante del nostro
essere al mondo in quanto uomini o donne: l’identità di genere è quindi
radicata nella biologia, anzi, in una parte di essa (la morfologia dei
genitali esterni), prescelta come significante. Un pezzo, uno dei tanti dati biologici,
è stato prescelto come portatore di significato, di informazione riguardo alla
persona. La quantità di informazione che si pretende veicolata da questo dato va
molto oltre se stesso. Riassumendo, le caratteristiche attribuite all’identità
di genere nella nostra cultura, che appartengono al senso comune, e come tale
non vengono problematizzate, sono:
A)
INNATISMO:
l’appartenenza ai sottogruppi è stabilita una volta per sempre alla
nascita
B)
ESCLUSIVITA:
ciò che appartiene all’uno non appartiene all’altro
C) RADICAMENTO
NELLA BIOLOGIA (tramite l’attribuzione di significato a un dettaglio attraverso
una scelta arbitraria)
D) PRECEDENZA
LOGICA DELL ATTRIBUTO DI GENERE RISPETTO AD ALTRI INDICATORI DI
IDENTITA
E)
OGGETTIVITA
(esclusione del soggettivo e del vissuto)
Ma
le cose, in natura, stanno veramente così?
In
realtà la vita e la natura sono molto più complesse di quanto le due semplici
etichette di maschio e femmina ci possano raccontare.
In
realtà identificare il genere di un individuo risulta molto più complesso di
quanto non s’immagini.
Tutti
noi iniziamo la nostra vita con una comune
anatomia embrionale che poi si differenzia a seconda della presenza o
meno del cromosoma Y. Quest’ultimo attiva la produzione di testosterone,
appropriati recettori nel cervello e la formazione dei testicoli. Le altre
caratteristiche che non si sviluppano rimangono nell’organismo allo stato
latente. Nel determinare il sesso biologico di una persona si possono prendere
in considerazione svariati fattori: i cromosomi sessuali, gli ormoni sessuali,
le gonadi, il sesso dal punto di vista dei genitali, il sesso dal punto di vista
della funzionalità riproduttiva.
Possiamo
chiamare la posizione di chi crede che la differenza sessuale sia riconducibile
a due categorie distinte e opposte, fondamentalismo del sesso. Nel campo
della determinazione fisiologica del sesso la questione che ha dominato la scena
è stata la seguente: di che tipo è il segnale lanciato alle gonadi embrionali
perché si sviluppino in ovaie e testicoli. Dal modo in cui i ricercatori pongono
la domanda, l’obiettivo è quello di trovare il meccanismo che consente di
differenziare il sesso maschile nel corso dello sviluppo dell’embrione.
Nonostante siano stati isolati vari elementi, non è stato possibile accertare
con sicurezza che qualcuno di loro sia
responsabile del vero sesso. Nessuna delle ricerche compiute finora è
riuscita nell’intento di identificare il preteso unico fattore. Una conclusione
si impone a questo punto: non si può attribuire la differenziazione sessuale a
un unico responsabile. Tale differenziazione sarebbe il risultato di una
successione di eventi agenti in modo coordinato e regolantisi reciprocamente.
L’idea che esista un unico fattore è correlata a quella dell’esistenza di un
confine netto tra i sessi, ma le ricerche mettono in luce come l’umanità non sia
bipartita in gruppi distinti quanto piuttosto ci sia continuità pressoché
assoluta di esseri umani in cui la formula cromosomica muta da un punto
all’altro di una scala graduale con una serie di variazioni che la scienza tende a definire varianti
patologiche. Che la scienza ci consegna uno schema tutt’altro che definitivo
per la differenza sessuale ce lo confermano i comitati olimpici: i test cromosomici
introdotti alla fine degli anni 60 per accertare il sesso di atleti e atlete ha
causato non pochi imbarazzi e incertezze, determinando molte espulsioni dalle
squadre sia maschili sia femminili. E’ curioso, ma anche molto significativo
rilevare come le persone espulse dalle squadre olimpiche per difformità della
formula cromosomica rispetto al sesso dichiarato e vissuto, continuino poi a
vivere tranquillamente la loro vita quotidiana nel sesso loro assegnato alla
nascita a seguito della ricognizione dei genitali. L’attribuzione sessuale non
viene quindi modificata da una difformità cromosomica, pure quando questa è stata rilevata per mezzo di analisi.
Ciò costituisce una prova che alla nostra società non interessa veramente che il
genere sia in corrispondenza con la sua presunta base biologica; alla nostra
società interessa in modo primario riprodurre il sistema ideologico alla base
della suddivisione dell’umano in due generi con ruoli sociali distinti. Che poi
la riproduzione dei ruoli poggi su basi biologiche o di altro tipo, per il
sistema vigente è piuttosto indifferente.
Questo
dalla fisiologia.
Ma
oltre a ciò, a scalfire la fede nell’esistenza di due generi opposti e distinti
sono intervenuti:
1)
la
ricerca antropologica con i resoconti di altre modalità di costruire
simbolicamente il M e il F nelle altre società
2)
la
conoscenza della diffusione dell’intersessualità
3)
l’introduzione
all’inizio degli anni 70 in ambito anglosassone ad opera del movimento
femminista della nozione di genere
Il
genere non è un “dato”: la ricerca antropologica e la sfida delle culture
tradizionali.
Tra
gli inuit non è così semplice. Nascere, tra gli inuit, vuol dire ritornare. Ogni
essere umano è la reincarnazione di un individuo già vissuto in precedenza. Alla
nascita si determina tramite cerimonie sciamaniche quale sia precisamente la
persona che il nuovo nato viene a rimpiazzare e di cui assumerà nome,
personalità sociale e le precedenti relazioni parentali. Sono le anime nome che
prendono l’iniziativa di tornare in vita, quale che sia la forma fisica in cui
rivivono. Capita così che a un essere umano nato con un sesso femminile venga
dato il nome portato in precedenza dal nonno, poiché chi nasce non è una bambina
ma il nonno stesso. Il sesso del nuovo nato non è che un dettaglio trascurabile
rispetto a quello dell’anima-nome. E’ in base all’anima- nome e all’identità che
questa aveva avuto in vita che la persona appena nata verrà
educata.
Al momento della pubertà gli individui il cui sesso era diverso
da quello dell’anima-nome dovevano reimparare da capo atteggiamenti,
comportamenti, attività e posizione sociale del sesso biologico in cui erano
nati. Il mutamento non era indolore né sempre accettato di buon grado,
soprattutto nel caso di ragazze. Tra di loro però, di un piccolo numero di
individui, chiamati sipinik, si accettava per tutta la vita che avessero un
sesso diverso da quello biologico: in genere erano donne con attributi sessuali
maschili. Di loro si diceva che avessero cambiato sesso spontaneamente alla
nascita, un transessualismo spontaneo dovuto all’azione dell’anima nome sul
corpo del suo portatore.
Cosa
possono insegnarci gli inuit? Direi che gli inuit sfidano il credo
dell’immutabilità dei tipi sessuali e rendono meno certe le convinzioni riguardo
a una femminilità e a una maschilità come “dati”. Essi ci insegnano
che:
Tra
i Sambia della Nuova Guinea troviamo un'altra idea. Femmine e maschi sono
considerati di essenza diversa: mentre si pensa che il corpo femminile abbia in
sé gli elementi del proprio sviluppo soprattutto sessuale, il corpo maschile è
pensato come risultato parziale e incerto della natura, qualcosa che debba
essere aiutato a sviluppare le sue caratteristiche di maschilità, anche per quel
che concerne la fertilità riproduttiva. Per i Sambia non c’è alcun collegamento
tra il nascere con un sesso e assumere una certa identità di genere. Ma
per i due sessi la soluzione è diversa. Per il sesso femminile essi ritengono
che una neonata nasca con tutti gli organi vitali e i fluidi necessari ad
assicurarle una competenza riproduttiva raggiunta mediante una maturazione
naturale. La maschilità al contrario
non è un dato naturale, ma deve essere costruita tramite una serie di
riti di iniziazione, che sottrae i ragazzi alle madri e sottoposti a
inseminazione omosessuale tra mite fellatio. L’accumulazione del seme è ritenuta
cruciale per la formazione della
maschilità biologica e per un comportamento mascolino. Quando nasce un neonato
tra i Sambia certamente essi danno un’occhiata ai suoi genitali e dicono “è un
maschio”, “è una femmina”, come noi. Ma il significato di quelle parole è
profondamente diverso. Per i Sambia dire questo vuol dire fare un’asserzione
sulla morfologia genitale e su possibilità di evoluzione futura, niente più.
Per noi vuol dire sancire un destino che comprende: pensieri,
atteggiamenti, emozioni, comportamenti, interessi, posizione sociale, ruoli
sociali, percorsi di carriera, orientamento sessuale.
Tutto
ciò che va oltre la semplice constatazione dell’esistenza di un dato grezzo di
per se non significante è COSTRUZIONE. Dal dato, da un semplice dettaglio viene
costruita la DIFFERENZA maschio femmina, una differenza che investe tutto
l’essere e anche gli spazi e i tempi in cui l’essere vive.
Nei
primi anni 70 in ambito anglosassone, nel campo degli studi sociali ad opera di
studiose femministe, si è affiancata alla nozione di sesso quella di genere. La
nozione di genere indica il versante simbolico del sesso. Ne mostra il carattere
artificiale, costruito e arbitrario, ma anche sistematico.
La
nozione di genere indica la differenza di status tra uomini e donne nell’assetto
sociale, prima che nella psicologia individuale. Se è vero che tutte le società
umane utilizzano la divisione uomini/donne per conferire struttura e significato
agli atti, è un fatto che in ogni
società i criteri in base ai quali viene definito il maschile e il femminile
sono diversi. Se ad esempio la divisione del lavoro tra uomini e donne è un dato
esistente in tutte le epoche e tutte le società, è anche vero che non esiste
alcun criterio naturale e ciò che è ritenuto maschile in una società e in un
epoca può essere compito riservato alle donne in altra società e altra epoca. Le
attribuzioni di genere di attività, qualità e ruoli hanno quindi carattere
storico e culturale. Ciononostante esiste un dato presente dappertutto e cioè
che attività, qualità, ruoli maschili sono considerati ovunque superiori
rispetto ai complementari femminili. Il maschile e il femminile sono polarità
gerarchizzate e gli uomini hanno uno status più alto delle donne. Questo è
l’unico dato uniforme.
L’introduzione
della categoria di genere così come la conoscenza di molti casi di
intersessualità, cioè di casi intermedi anche a livello di morfologia sessuale,
ha portato a riflettere sul fatto che il sesso non è in realtà un dato ma è
qualcosa di costruito.
La
costruzione degli uomini e delle
donne tramite l’educazione: l’espulsione dell’altro da sé con l’educazione
differenziata.
Stabilito
questo, che cioè le differenze di genere sono costruite culturalmente a partire
da un dettaglio biologico di per sé non significante, vediamo come si viene
costruiti a livello di singole persone.
Si
viene costruiti come uomini e come donne attraverso il processo di
inculturazione che modella comportamenti ed emozioni e quindi ruoli sociali.
Esso fa si che gli appartenenti a ciascuna categoria sociale si pensino come
diversi, considerando lo status assegnato e i ruoli a esso connessi come
rispondenti a leggi di natura.
Se
a livello culturale nella costruzione dell uomo e della donna sono in atto
processi mentali e ideologici come la naturalizzazione e la
destorificazione a livello psicologico è operante la rimozione. Di
fronte al confronto con lo stereotipo, con il modello proposto, si impara a
uccidere una parte di se stessi, quella non corrispondente alle aspettative,
attraverso 2 meccanismi: l’incoraggiamento a produrre comportamenti
coerenti con lo stereotipo della propria appartenenza di genere e le
sanzioni che colpiscono i comportamenti non
conformi.
L’identità
di genere viene forgiata attraverso i giochi che mirano a costruire attitudini
differenti (rimozione di quanto non contemplato dallo schema dei ruoli).
L’acquisizione di abitudini differenti, atteggiamenti e modi di pensare diversi
serviranno a confermare la credenza nell’idea dell’ esistenza di un confine
netto tra i due raggruppamenti. Il modo di vestire, di parlare, di muoversi
e gestire il proprio corpo, il diverso accesso alle risorse e alla politica, le
attività lavorative sono segnali culturali della differenza che si punta a
riprodurre tra maschile e femminile.
La
biologia supporta così l identità dicotomica, resa internamente coerente nei
modelli proposti. L’identità, ontologizzata, fatta diventare cosa, diventa la
base del ruolo. Il tutto, si fa credere che poggi sulla biologia quindi chi si sente di avere in se parti non
coerenti è considerato più o meno malato e oggetto di stigma, se queste
discrepanze rispetto alla norma vengono esplicitate, rese evidenti e se superano
una certa soglia.
Il
fine dell’educazione è quello di allineare, di mettere in sintonia, a seconda
degli stereotipi:
1)
identità
di genere biologica
2)
identità
psicologica
3)
ruolo
sociale
4)
orientamento
sessuale
Forse
non tutti sanno che il nostro modello di genere ha solo 300 anni di vita. In
precedenza vigeva una concezione monosessuale: esiste un solo sesso che si
realizza in due forme a seconda del maggiore o minor calore dell’organismo. Il
passaggio è graduale. Il sesso pienamente realizzato è quello maschile, mentre
il sesso femminile è considerato imperfetto, una deformità. E’ questa la
concezione di Aristotele che è stata alla base dell’ideologia della differenza
di genere per 2000 anni.
In
questa prospettiva la differenza di genere viene fatta derivare non dalla
biologia ma dalla cosmologia. I greci, che conoscevano l’intersessualità e
l’ermafroditismo, sapevano bene che la biologia non forniva un appiglio
sufficiente per poter supportare l’ideologia che dicotomizza e dà ruoli sociali
diversi e gerarchizzati a uomini e donne. Perciò si affidarono alla cosmologia,
considerata un appiglio più sicuro.
L’essenza
del maschile viene individuata nel possesso dello spirito, nel mutamento, nella
generazione. Il maschile è il principio dinamico. Il femminile è materia inerte,
passiva, su cui lo spirito agisce. La terra è femmina e madre, il cielo e il
sole sono generatori e padri. L’opposizione freddo-caldo è una delle bipolarità
pertinenti per descrivere l’opposizione femminile-maschile. L’elemento freddo è
specifico della femmina. Il luogo titolare del processo della creazione del
seme, la fonte del calore generativo, viene individuato nei testicoli. Lo sperma
è sostanza capace da sola di
trasmettere la vita perché abitata dallo neuma, la cui presenza accomuna
il maschio al motore primo divino.
La
femmina è passività, ricettacolo, essere totalmente inerte dal punto di vista
procreativo. E’ come un uomo sterile, perché il sesso VERO è uno solo,
ricordiamolo, quello maschile.La femmina è deforme e nasce quando la materia non
viene toccata dallo spirito, dal principio maschile.
Che
gli antichi credessero in un solo sesso realizzato in due forme lo testimonia
anche il linguaggio: ovaie e testicoli erano designati dalla stessa nomenclatura
e così le altre parti degli apparati genitali: l’apparato genitale femminile era
considerato come un apparato maschile che però, per insufficienza di calore, non
era riuscito a giungere a maturazione e quindi non si era “estroflesso”
all’esterno.
Questa
concezione ha dominato per 2000 anni e poi, a causa dell’indebolimento della
cosmologia aristotelica, fu sostituita dall’ideologia binaria del sesso
supportata dalla biologia. Ci si rese conto, in altre parole, che la biologia
poteva fornire un pretesto più solido per supportare la divisione gerarchica e
di ruolo tra uomini e donne nella società di quanto non potesse fare una
cosmologia che ormai aveva fatto il suo tempo.
La
storia sembra mostrarci quindi che è al fine di supportare le esigenze di
controllo dei maschi sulle femmine e la cristallizzazione dei ruoli sociali che
è nata l’ideologia binaria del sesso e non viceversa. E’ il sistema di ruoli di genere che è
primario (usando una metafora marxiana diremmo “strutturale”) e che dà forma al
sistema del sesso (che diventerebbe in questa prospettiva secondario, derivato
e, quindi, “sovrastruttura”), e non viceversa. La cronologia delle scoperte e
della letteratura ci suggerisce di rovesciare i vettori logici: è dalla
necessità di avere una ideologia di supporto al sistema di genere che è nata la
credenza dei due sessi in biologia e non viceversa.
Chi
non si conforma allo stereotipo è oggetto di stigma. Quali sono i meccanismi
dello stigma sociale? Come funziona e come reagiscono le persone per evitare di
esserne oggetto?
Stigma
si riferisce ai segni fisici, visibili, informazione spia di una
divergenza/devianza rispetto alle aspettative relative a una norma che riguarda
una certa categoria di persone. Le aspettative si riferiscono a comportamenti o
fattori importanti nella vita sociale con un addentellato nel sistema della
definizione delle norme morali, del bene e del male. Stigma è però soprattutto
anche l’atteggiamento morale di condanna della condizione di chi è
portatore di questi segni fisici di diversità.
La
società stabilisce quali parametri debbono essere usati per suddividere
gli individui in categorie e quale complesso di attributi deve
essere considerato normale ordinario e naturale nel definire l
appartenenza a una di queste categorie. Davanti a un estraneo è possibile che il
suo aspetto immediato ci consenta di stabilire in anticipo a quale categoria
appartiene e i suoi attributi.. Se l’estraneo possiede attributi non rispondenti
alle aspettative e che lo rendono diverso dagli altri, viene declassato da
persona completa a persona segnata, screditata. L’attributo che determina il
declassamento è lo stigma: può essere una mancanza, un handicap, una
limitazione.
La
persona che non si confà ai ruoli sociali sanciti dall’appartenenza al suo sesso genetico è oggetto di
stigma.
Lo
stigma può riguardare diversi aspetti:
Lo
stigma possiamo scomporlo in diversi elementi:
·
l’essenza,
cioè il contenuto dello stesso
·
la
norma morale violata
·
i
segni con cui si manifesta nella società dei normali
·
le
imperfezioni derivate da quella originaria
·
il
pericolo che rappresenterebbe per la società
Per
definizione si crede che la persona con uno stigma non sia propriamente umana.
Mettiamo in piedi una teoria dello stigma, una ideologia atta a spiegare la sua
inferiorità e ci preoccupiamo di definire il pericolo che una
persona stigmatizzata rappresenta per la società. C’è la tendenza ad attribuire
una vasta gamma di imperfezioni a partire da quella originaria e a volte
ad affibbiare attributi desiderabili ma non desiderati specie di natura
soprannaturale (speciale sensibilità dei transgender).
Atteggiamenti
e comportamenti sociali di fronte allo stigma.
Lo
stigmatizzato tende ad avere le stesse credenze riguardo all’identità,
che hanno i normali. Avendo interiorizzato attraverso l’educazione i criteri che
la società più ampia impone per essere persone, lo rende consapevole delle sue
mancanze e ciò provoca in lui la convinzione di non riuscire ad essere ciò che
dovrebbe. Ciò può portare all’odio di sé e
all’autodisprezzo.
Altri
comportamenti sono la vittimizzazione e l’attribuzione degli insuccessi nella
vita allo stigma invece che ad altre ragioni (crearsi un alibi, ottenere
vantaggi secondari).
Lo
stigmatizzato seleziona accuratamente le occasioni sociali dove mostrarsi. Il
timore che altri possano non aver rispetto della persona stigmatizzata può
comportare perenne insicurezza nel contatto interpersonale e autoconferma della
sua inferiorità.
Comportamenti
tipici di fronte alla derisione sono l’ostilità provocatoria e la timorosa
sottomissione.
Ad
un certo punto del suo percorso, lo stigmatizzato incontra una o più persone
“normali” comprensive e sagge, pronte ad appoggiarlo e a condividere la
convinzione che egli sia un essere umano normale malgrado le apparenze. Sono
persone che si presentano come portavoce di fronte a un pubblico di persone
normali, esponendo le esigenze degli stigmatizzati e, se fanno parte del gruppo,
offrendo un modello di realizzazione tipico della persona
normale.
La
“carriera” di una persona stigmatizzata segue alcune fasi che possono essere tipizzate come
segue:
1)
interiorizzazione
del punto di vista delle persone normali
e acquisizione delle credenze che la società più grande ha sull’identità e un
idea generale di cosa voglia dire avere un particolare
stigma;
2)
apprendimento
di essere in possesso di un particolare stigma
e quali ne possano essere le conseguenze;
3)
da
un certo momento in poi il problema è quello di controllare l informazione su
se stesso. L’obiettivo è quello di mostrare una parte di se stessi,
quella compatibile con le aspettative sociali. La persona selezionerà con
cura le occasioni sociali in cui potersi presentare per come si è mentre
cercherà di “passare” (per normale) nelle altre occasioni. Una parte
dell’informazione viene trasmessa attraverso simboli (es l’anello matrimoniale).
L’informazione sociale trasmessa da un particolare simbolo può avallare una
particolare pretesa al prestigio, allo status. Sono simboli di prestigio o di
status. Opposti sono i simboli di stigma, che hanno particolare efficacia
nell’attrarre l’attenzione verso qualche discrepanza che svaluta
l’identità.
4)
La
fase successiva è quella in cui si impara ad affrontare il modo in cui gli
altri trattano il tipo di persone cui può essere
assimilato.
Da
dove nasce la paura e che funzione ha?
Non
è vero che la paura verso il diverso sia istintiva. E’ anch’essa un
atteggiamento costruito socialmente. L’inconsueto genera piuttosto curiosità e
non paura, provoca quindi piuttosto reazioni di avvicinamento più che di fuga o
repulsione. La paura per sempre, la differenza che differenzia è un prodotto
costruito. Studi di psicologia cognitiva hanno confermato che i bambini imparano la categorizzazione
razziale dal linguaggio e non dalla percezione visiva. La loro conoscenza della
razza come categoria verbale precede quella della razza come fenomeno visivo. La
percezione visiva della razza deriva dall idea della razza e non viceversa. I
bambini in età prescolare possono provare paura o antipatia verso membri di una
razza senza averli ancora visti, secondo quanto trasmesso dall ambiente. Si
impara dunque ad avere paura rispetto a una categoria socialmente definita e
nominata prima di essere vista e percepita. E’ molto importante questo concetto anche
nel campo dell’omosessualità. Quando troviamo paura, lì è una spia che abbiamo a
che fare sempre con un diverso non conosciuto.
Alla
paura si mescola il disgusto. Anche il disgusto non è un sentimento istintivo,
ma è costruito culturalmente. Il disgusto è uno strumento di primaria
importanza per la interiorizzazione dei divieti culturali cioè un mezzo
importante di socializzazione del li individuo. Si tratta di una socializzazione
negativa attraverso la quale cioè l individuo impara ciò che non deve essere,
ciò da cui deve distanziarsi e che connota invece altri gruppi sociali. Il
disgusto è da questo punto di vista una potente forza culturale che trasforma l
attrazione in repulsione. Es. l’attrazione verso le feci. Sono processi
cognitivi che non passano necessariamente per la parola. I bambini hanno
infinite possibilità di osservare in svariate situazioni gli atteggiamenti di
disgusto degli adulti e segnatamente dei genitori, espresse verso gruppi e
individui considerati inferiori.
La
possibilità di designare le categorie e stabilire chi vi appartiene è un fatto
di potere. C’è una citazione di Goebbels molto significativa a questo
riguardo, rivolta al regista Fritz Laing che contestava l’attribuzione razziale
a lui diretta: “Signor Laing, siamo noi che decidiamo chi è ebreo”. La
definizione, la designazione dell’altro in quanto “altro” non è un processo a
due vie, simmetrico, reciproco, di andata e ritorno. E’ univoco perché il
vettore del potere è unidirezionale. Quindi il gruppo eterosessuale definisce
l’omosessuale e crea il problema lo trasforma in oggetto di studio, non
viceversa. I bianchi studiano i neri e non viceversa. I ricercatori della classe media di
Manhattan creano l oggetto di studio dell’abitante del ghetto nero, non
viceversa. La relazione sociale e
di potere crea la differenza o quanto meno la connota. Con la scelta di un
tratto fisico vero o inventato che diviene marchio biologico vengono create
categorie presentate come naturali.
Dico
quello che penso. La società deve riprodursi per perpetuarsi. La struttura
sociale è vista come un organismo. Per questo ogni società cerca di ridurre al
minimo gli elementi di novità e di deviazione rispetto all’ordinario, anche a
costo di sacrificare l’espressività individuale. Quando noi usiamo il verbo
riprodursi e il sostantivo riproduzione non bisogna dimenticare che non si parla
solo di riproduzione biologica. Si parla anche e soprattutto di riproduzione
sociale, cioè delle strutture, istituzioni, ruoli, rapporti sociali, nel tempo,
da una generazione all’altra. Le persone nascono e muoiono ma le istituzioni
rimangono, hanno personalità metastorica. Uno dei motivi per cui la società
resiste tenacemente all’apertura nei confronti dell’istituzionalizzazione delle
famiglie derivanti dalle unioni omosessuali è da ricercare nel fatto che queste unioni metterebbero in questione
il monopolio del modello familiare tradizionale, inteso come il luogo per
eccellenza della riproduzione ideologica e dei rapporti sociali, che è alla base
della riproduzione dell’intera struttura dei rapporti economici e sociali.
Metterebbe in questione la gerarchia, l’asimmetria di potere e la divisione dei
ruoli tra uomo e donna. E’ infatti, in famiglia che le persone imparano a vivere
secondo i loro ruoli, di maschi e di femmine e a rapportarsi gli uni alle altre
secondo modalità stereotipate e dinamiche di potere codificate; questi ruoli
saranno poi riprodotti nel mondo del lavoro. E’ per preservare questa funzione
della famiglia come “scuola del vivere in società” che dà all’individuo lo
stampo cui si dovrà conformare nei rapporti economici da adulto, che la società
resiste tenacemente di fronte all’apertura del concetto di famiglia ad altre
tipologie che metterebbero in questione i contenuti dell’apprendimento “sociale”
veicolato dal modello tradizionale.
L’incomprensione
tra i sessi causata dall’aver rimosso l’altro che è in
noi.
Pensarsi
diversamente per aver allontanato il diverso, l’altro dentro di noi, vuol dire
porre le premesse per non capirsi, generare incomprensioni per il resto della
vita.
Accade
spesso che i due sottogruppi sociali degli uomini e delle donne vivano
all’interno di una realtà assolutamente egocentrica, autoreferenziale e
autosufficiente, nella quale l’uno cerca di ridurre le infinite verità
dell’altro, e viceversa, al proprio impermeabile mondo presunto. Gianna
Schelotto descrive così il meccanismo di incomprensione che si instaura in una
situazione tipica di incontro sessuale e affettivo:
“Proviamo
a pensare a due bambini, un maschio e una femmina, che crescono insieme e da
sempre, incontrandosi a casa o fuori, ripetono gli stessi giochi: si rincorrono,
si acchiappano, si avvinghiano. Col passare degli anni, però, senza che se ne
rendano conto, i loro corpi mutano e un bel giorno, il toccarsi dei giochi
consueti provoca in loro sensazioni nuove e inquietanti. Sono cresciuti, la
pubertà li sta lentamente trasformando e il contatto dei corpi,
inaspettatamente, provoca nei ragazzini una sconosciuta eccitazione. Il
maschietto avrà una risposta fisica evidente e concreta – un’erezione – e
riuscirà a dare un nome preciso all’insieme di elettrizzanti messaggi che i
sensi gli trasmettono; penserà: “questo è sesso”.
La
bambina, che sta vivendo le stesse avvincenti novità, ma senza un preciso
riferimento corporeo, cercherà a sua volta di riconoscere e dare un nome a ciò
che le sta accadendo e penserà “Questo è amore”.
Da
tale esperienza “primordiale” derivano alcune caratteristiche specifiche del
modo femminile e maschile di pensare l’amore: gli uomini, anche in presenza dei
più romantici batticuori, difficilmente prescindono dall’evidenza e dalla
fisicità. Le donne hanno idee più vaghe, generali e
fantasiose.”
Come
interpretare quanto scritto dalla Schelotto? La nostra educazione ci spinge in
modo inesorabile quanto impercettibile verso una interpretazione di tipo
essenzialistico. E’ come se ci dicesse: siccome uomini e donne sono diversi
nella loro corporeità, è dal loro corpo che giungono stimoli opposti
all’interpretazione della realtà. In questa prospettiva l’incomprensione diventa
un destino deciso dalla biologia. Questa credenza nell’irriducibile diversità ed
estraneità dei rispettivi universi mentali verrà così incorporata nel sistema
mentale e contribuirà a strutturare gli schemi di azione delle persone, le quali
così si troveranno a dar vita a
situazioni di conflitto segnate da reciproca incomprensione.
In
realtà c’è un’altra interpretazione possibile: quella secondo la quale noi non
siamo capaci di comprendere l’altro
perché abbiamo espulso l’altro che è in noi. L’educazione sessista, impartita in modo differenziato
veicolando valori opposti per maschi e femmine, e quindi mirata ad espellere
l’altro da noi, è un fattore predisponente a quell’incomunicabilità e a quel
conflitto tra i sessi, che a volte assume l’aspetto di una vera e propria guerra
con le sue vittime e le sue abissali solitudini, cui assistiamo nella società
odierna.
Vediamo
un’esperienza di segno contrario, l’esperienza di un incontro, che ci mostra
come possiamo comprendere l’altro, quando non abbiamo ucciso le possibilità di
sentire l’altro dentro di noi e quindi di essere, in una misura più o meno
grande, anche l’altro.
Vi
racconto un fatto successo a me.
Periodicamente
mi reco a Bologna per motivi di studio, e per il pernottamento mi faccio
ospitare in casa di singoli o famiglie che aderiscono ad una associazione di
scambio di ospitalità. Siamo una grande comunità con migliaia di aderenti in
tutto il mondo ma, ovviamente, non ci conosciamo personalmente.
Chi
mi ospita è, questa volta, una coppia con due bambini. E' sera tardi e li
aspetto sotto casa. Incontro per prima lei, presentazioni veloci, poi
saliamo. Un bicchiere d'acqua, poi arrivano marito e bimbi: Daniele, 7 anni,
schietto, birichino, curioso, per niente timido, e Martina, grande (9 anni) e
saggia, un aplomb notevole.
Ci
presentiamo e, non appena pronuncio il mio nome, Daniele si volta con velocità
istantanea verso la mamma esclamando "ma ha una voce da uomo!" La mamma ed io ci
ridiamo su poi mi esce una battuta cretina "Sai, a volte la natura fà di quelle
stranezze..."
E'
tardi però per ulteriori riflessioni e si va a nanna. Quasi subito penso di aver
sbagliato. Va bene il mio diritto alla riservatezza, ma qui sono in un ambiente
intimo, familiare, protetto, e ci sono i bambini e ai bambini bisogna spiegare
tutto.
L'indomani
appena sveglia faccio presente questo pensiero alla mamma. Mi dice di non
preoccuparmi e di aver già provveduto lei a dare al curiosone un minimo di
infarinatura prima della nanna. Mi dice anche di prepararmi per quando ritorno
la sera, perché sarò sicuramente oggetto di un'intervista da parte degli
infanti.
Per
tutto il giorno sono un po' emozionata al pensiero di questa intervista. Come se
andassi a un esame.
Quando
torno la sera e mi siedo a tavola, Daniele si avvicina per mostrarmi i suoi
libri di fiabe preferiti, ma non c'è alcun cenno di intervista. Aspetto invano
poi, quando i due scugnizzi sono andati a letto chiedo alla mamma "Ma...
l'intervista?"
"Ah...
già, non preoccuparti... hanno già risolto tutto nel pomeriggio. Poi a Daniele
la questione non interessava più. Pensa che c'era Martina che moriva dalla
voglia di spiegargli il perché della voce da uomo e a un certo punto glielo
chiede:
-
Daniele, non vuoi sapere la storia di Alessia?
-
No (senza guardare la sorellina e continuando a occuparsi degli affari
suoi)
-
Ma come... non ti interessa sapere perché ha una voce da uomo?
-
Noooo!!! (ancora sui suoi libri di fiabe)
Insomma,
tanta era la voglia di Martina di chiarire questa cosa a Daniele, che l'ho
convinto ad ascoltarla. Allora Martina racconta:
-
Una volta Alessia era un uomo. Però non si trovava bene e voleva essere donna.
Soffriva molto. A un certo punto si chiede <<Ma chi me lo fa fare di
soffrire così? Piuttosto cambio!>> E così ha cambiato il suo corpo.
L'unica cosa che è rimasta come prima è la voce."
Inizio
a ridere. Incredibile come una bambina di 9 anni, che non aveva mai visto
nessuno nelle mie condizioni e senza che io le abbia detto niente di me, sia
riuscita a immedesimarsi nei miei pensieri e a renderli in modo così semplice a
un bambino che, d'altra parte, ormai non manifestava più alcun interesse per la
mia "diversità", semplicemente perché non la vedeva più come tale. Non ero stata
"diversa" nella sua mente, che per 5 brevi, scarni, insignificanti
minuti.
Ma
non finisce qui:
"Sì
perché alla fine Martina sente il bisogno di coronare la sua "spiegazione" con
una conclusione edificante:
-
Vedi Daniele, questa è stata una sua scelta, e noi dobbiamo sempre rispettare le
scelte degli altri."
Evito
altri commenti perché la cosa si commenta da sola. A parte il fatto che io
considero questo episodio come l'ennesima conferma del fatto che gli essere
umani nascono intelligenti e creativi, per rincretinirsi in seguito, grazie
all'azione coordinata e congiunta di genitori, scuola, preti, psicologi e via
dicendo.
Nel
“Ma chi me lo fa fare di soffrire così tanto? Piuttosto cambio”, Martina ha
saputo essere l’altro, vivere ciò che vive l’altro, immedesimarsi, sentire e verbalizzare i
suoi pensieri. Ha saputo attraversare la frontiera io-altro senza paura di
perdersi e di smarrire i propri connotati identitari. La frontiera è permeabile,
si va e si torna. Il viaggio, l’oblio temporaneo della propria identità, in
realtà la rafforza rendendola aperta al rinnovamento e alla crescita attraverso
la conoscenza dell’altro.
Martina
è figlia di genitori e un’educazione aperti.
Creare
una cultura dell’incontro.
Incontro
significa più di un vago rapporto interpersonale. Significa che due persone si
incontrano non per porsi semplicemente l una di fronte all’altra ma per viversi
e fare un’esperienza reciproca:
“E
quando mi sarai vicino io prenderò i tuoi occhi
E
li metterò al posto dei miei,
e
tu prenderai i miei occhi
e
li metterai al posto dei tuoi
e
allora io ti guarderò coi tuoi occhi
e
tu mi guarderai coi miei.”
(Jacob
Levi Moreno)
Non si
può incontrare l'altro fuori di noi se non lo abbiamo incontrato prima dentro di
noi. Ma come l’altro entra in noi? Come facciamo concretamente a sentire di
essere l’altro? Ci sono alcune esperienze comunicative che ci aiutano: possiamo
avere accesso al mondo dell’altro attraverso le risonanze suscitate in noi dal
racconto delle esperienze e delle emozioni vissute da altre persone. Se il
nostro corpo e la nostra mente possono vibrare assieme all’altro come un
diapason, ciò significa che anche la nostra struttura biologica è atta a
comprende in sé l’altro. Le esperienze di empatia, le quali ci permettono di
avvicinarci all’altro per sentirlo dentro di noi, lo
confermano.
Alcune
idee per aiutarci a vivere la nostra identità di genere al riparo da stereotipi
che ingabbiano.
1)
Avere
coscienza che ciò che sono gli uomini e ciò che sono le donne è storicamente
determinato; l’identità di genere è variabile nel tempo
storico
2)
Il
dato del genere non è necessariamente più importante di altre componenti
dell’identità personale
3)
Nella
definizione di genere il soggettivo prevale sull’oggettivo
4)
Differenza,
asimmetria e gerarchia tra uomini e donne vengono continuamente esaltate e
ricostruite tramite i discorsi; le somiglianze, identità, analogie continuamente
taciute e represse. Possiamo dire che esiste un tabù della somiglianza tra i
sessi e della variabilità all’interno dello stesso sesso, che si ha paura a
infrangere.
5)
L’espressione
corporea dell’ identità di genere è plasmabile; l’espressione identitaria è un
diritto fondamentale della persona
6)
L’identità
di genere ha molte sfumature intermedie, non è dicotomica
7)
L’identità
di genere e’ evolutiva e si inserisce nel percorso di crescita
personale
8)
La
consapevolezza identitaria comporta la coscienza della compresenza di molti sé
in armonia
9)
Essa
non è ancorata in primis alla biologia e in particolare non c’è un rapporto
necessario con la morfologia genitale
Pensate
quanto ci piacerebbe una società dove nei reparti di maternità, il grido di
gioia che accoglie un nuovo nato “E’ un maschio”, “E’ una femmina” non avrebbe
altro significato che quello di indicare una forma esterna dei genitali e solo
quella, senza la pretesa che questo semplice dato estetico diventi un indicatore
assoluto che ne predetermini il destino.