RASSEGNA STAMPA

Settembre 2005


07/09/2005 - Il Gazzettino - Roberto Luciani
 
«Sono trans, invisibile e dannata»
Il calvario di Serena, uomo nato con il seno e in attesa di cambiare sesso, che non trova lavoro

Vicenza

«Sono nata con il seno e non si capiva perché. Per anni hanno continuato a darmi ormoni maschili, dicevano che ero malata. Nonostante ciò non ho ricordi di essere stata uomo: mi piacevano i maschi, compravo le bambole, amavo i vestiti rosa. Insomma, mi sentivo donna a tutti gli effetti». Imprigionata prima in un corpo per metà - quella anagrafica - di uomo, poi in una vita di pregiudizi e porte chiuse, Serena continua a vivere dietro le sbarre anche ora che ha 28 anni e vive nella pedemontana vicentina, lontano dalla sua Sicilia. Per lei, transessuale per destino, in attesa dell'ultimo giudizio del Tribunale prima del bisturi, la condanna della solitudine e dell'oblio. Perché Serena esiste fino alla soglia dei documenti. E lì ogni volta muore.

Per colpa di quei documenti non ha amiche e soprattutto non ha un lavoro. «Ho bisogno di lavorare, le terapie che sto facendo a Bologna sono costose e comunque solo con lo stipendio del mio compagno non ce la facciamo. E per fortuna che il prete ci ha dato una mano con la caparra per l'appartamento, altrimenti saremmo dovuti rimanere in una stanza piena di muffa. Abbiamo bisogno di un'altra entrata. Per questo avevo deciso di mettere in vendita un rene. Meglio questo che finire a prostituirmi in strada». Assurdo? Non come l'ultimo colloquio: «Abbiamo fatto una prova. Mi sono recata in un'agenzia interinale e dopo aver lasciato i dati, al femminile, ho detto che mi ero scordata a casa la carta d'identità. Dopo un po' mi hanno chiamata proponendomi un lavoro in una casa di riposo. Ho accettato e a quel punto ho consegnato tutte le carte, così quando hanno letto le mie generalità hanno cominciato a tergiversare e dopo qualche giorno mi hanno detto che non se ne faceva più nulla perché la cosa imbarazzava i parenti degli anziani ricoverati».

Umiliazioni su umiliazioni e quel «le faremo sapere» che beffardo rimbomba nelle orecchie. Per fortuna che c'è il suo compagno. Da otto anni con lei, a sfidare l'ironia, la curiosità morbosa e pure la fame. «Fino a 18 anni», racconta Serena, «pesavo 140 chili e tutti mi prendevano in giro. Alla maturità decisi di diventare completamente donna, ma da noi non c'erano strutture, bisognava andare a Roma o a Bologna. Dopo qualche tempo conobbi lui e insieme abbiamo iniziato un percorso di sopravvivenza. Andammo a vivere nella casa popolare di mia madre (mio padre era andato via che ero piccola), 45 metri quadrati e un letto. Chiesi allora aiuto al Comune, ma mi dissero che era meglio se andavo via e mi diedero alcune centinaia di migliaia di lire. Partimmo con la Uno verso il nord, convinti che la vita sarebbe stato più facile».

Invece lì inizia il loro calvario: «Provammo a Reggio Emilia e Bologna, niente. I soldi scarseggiavano, dormivamo in auto, ci lavavamo nelle fontanelle e mangiavamo alle mense della Caritas. Quei pochi soldi che racimolavamo andavano in benzina. Decidemmo allora di tornare giù. In Calabria un prete ci prese a dimora in una casa diroccata e cominciammo a lavorare nelle serre. Ben presto fummo notati ed allora il sacerdote ci disse che non poteva più aiutarci perché la gente chiacchierava». In Sicilia un pizzico di fortuna: «Il mio compagno trova lavoro come cameriere stagionale, va anche nelle isole e per due anni e mezzo viviamo a Milazzo. Poi il lavoro si fa più provvisorio e allora decidiamo di tornare al Nord. Veniamo nel Vicentino, dove ho una parente».

Un anno sopra Breganze, in una taverna, poi a Thiene, prima in un primo piano invaso dalla muffa che scandalizza e muove a pietà il parroco, ora in un mini finalmente luminoso. Eppure, per il mondo esterno Simona continua a esistere fino alla carta di identità. «È dura stare sempre qui dentro. Come stare in galera. Faccio dei lavoretti artistici, dipingo piatti, ma sono stanca di essere reclusa. Il 23 settembre ho l'udienza in Tribunale a Vicenza per il nulla osta per l'operazione, chissà che poi possa cominciare a vivere in modo normale».

Nel frattempo lei e le altre 4000 transessuali italiane restano invisibili e dannate. E condannate spesso alla strada. «Come se la nostra fosse una scelta. No, transessuali si nasce».

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06/09/2005 - Il Messaggero - CLAUDIO CURTI
 
«Non trovo lavoro perché sono transessuale»
FABRIANO/LA STORIA DI ALESSIA


FABRIANO «Vivere la propria transessualità a Fabriano può essere veramente complicato perché si viene in continuazione sottoposti ad angherie che ti colpiscono esternamente ed interiormente. Ma nello stesso tempo, per fortuna, queste stesse difficoltà ti fortificano e ti spingono ad andare oltre». Lei si chiama Alessia Bellucci ed è assurta agli "onori" della cronaca per la vicenda legata al tunisino Mohamed Salah Yousef Abdellaoui, che si è dato fuoco il 21 agosto nel pieno centro di Fabriano. Il 38enne nordafricano, infatti, ha rifiutato una stanza in affitto messagli a disposizione dai Servizi sociali comunali nella casa, appunto, di proprietà di Alessia. «Non volevo stare con una transessuale», ha spiegato Mohamed. «Sono otto mesi - dice Alessia - che sto cercando di affittare questa stanza. Sono in tanti quelli che per telefono sembrano interessati, ma poi, una volta che ci incontriamo, perdono automaticamente mordente. Alcuni me lo dicono in faccia che non vogliono stare con una transessuale, altri preferiscono defilarsi accampando qualche scusa». La storia di Alessia, scelta di vita sessuale decisa “visivamente” tre anni fa, è costellata da momenti di alti e bassi come per qualsiasi persona. «Ma a noi - prosegue - non ci stendono i tappeti rossi e siamo costrette ad imparare l'arte dell'arrangiarci. Ho avuto due mogli e poi tre anni fa circa ho capito che la farfalla che è in me voleva e doveva uscire fuori. Ho iniziato la terapia ormonale e a vestirmi da donna, perché mi sento donna. Ho scoperto che mi piacevo e soprattutto ho notato, uscendo per il corso di Fabriano, che non venivo additata». Una trasformazione che ha generato una serie di conseguenze. «Da un punto di vista personale sono stata sempre una persona abbastanza riservata. Non ho mai avuto molte amicizie per scelta, e le ho quasi tutte mantenute. Da un punto di vista sociale, invece, ci sono stati molti più problemi. Io lavoro sei mesi all'anno e per il resto mi mantengo con la disoccupazione straordinaria. Lavoro tre mesi in un ente pubblico e tre in un ente privato da tanti anni. L'anno scorso all'ente pubblico, il Consorzio Frasassi, mi sono presentata nella mia nuova veste e il direttore mi ha intimato di vestirmi da uomo. Non mi sono persa d'animo. Ho interessato del caso la Cgil e tutto si è risolto. Discorso diverso, invece, per l'ente privato: non mi hanno chiamato più per lavorare. Credo che mi rivolgerò ad un avvocato per evitare questa discriminazione». Alessia sta cercando nuovi lavori, si è rivolta alle società interinali e ai centri per l'impiego ma, per ora, nessuna chiamata è mai giunta. «Eppure - dice - ho avuto esperienze in uffici commerciali, conosco tre lingue (inglese, tedesco e francese), ho frequentato un corso di comunicazione, di psicodramma e di counseling bio-sistemico a Roma. Non so quanti possono vantare questo curriculum. La verità è che la gente parla spesso di integrazione, del valore della diversità, però poi alla resa dei conti non si riesce ad andare oltre le apparenze. Mi auguro che si riesca finalmente a cogliere la ricchezza che esiste dentro ogni persona a prescindere dalla sessualità».

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