Il silenzio dell'altro: che minchiata ha fatto Gesù per essere ammazzato così?

 

Riflessioni sull'alterità LGBTQ

di Alessia Bellucci

 

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Sommario:

 

1 - Un discorso sul silenzio: quasi un paradosso

2 - L'altro

3 – Lo stigma

4 - Atteggiamenti e comportamenti sociali di fronte allo stigma

5 - Stigma e identità sociale

6 - Screditati e screditabili: un gioco di specchi

7 - Saggi e garanti

                       8 - Redenzioni esemplari

                       9 - Accettazione condizionata dello stigmatizzato e spazi consentiti.

10 - Scatole cinesi: lo stigma nello stigma

11 - Paura e disgusto: 2 emozioni correlate alla condanna da stigma

12 - Le barzellette etniche, razziste, omofobiche, maschiliste: perché dire no. La nullificazione dell'altro stigmatizzato attraverso le barzellette

13 - Le posizioni della struttura ecclesiastica cattolica

14 - Una percezione sociale distorta alla base delle discriminazioni

15 – Gesù: dalla parte degli stigmatizzati

16 - Dallo stigma all'incontro autentico.

 

 

 

1 - Un discorso sul silenzio: quasi un paradosso

 

Le parole che sto per dire compongono un discorso che ha del paradossale. Come si può pensare a un discorso sul “silenzio” se non entrando nella logica del paradosso? Ci sono molti silenzi e quasi automaticamente quando sentiamo la parola silenzio la associamo a un silenzio vissuto in modo individuale: il silenzio della meditazione, il silenzio della concentrazione, il silenzio di un abbraccio, il silenzio di chi ascolta una sinfonia…

Meno comune è arrivare a pensare all'esistenza di silenzi corali, appartenenti a intere categorie umane. Silenzi vissuti insieme. Sintomo di disfatta sull'arena delle battaglie con un potere più forte, disegnano i contorni di una rete di comunicazione possibile e alternativa, preludio di un messaggio che aspetta di essere precisato nei suoi contorni e codificato in un linguaggio nuovo e forte. Alcuni gruppi umani hanno il potere di indurre al silenzio altri gruppi. Assieme al silenzio, viene in genere “offerto” loro anche un codice simbolico con cui esprimersi, un codice gradito al potere e che costituisce l'unica possibilità di comunicare al mondo la loro esistenza sociale.

Sfogliamo un libro si storia. Forse vi troviamo donne? No. Forse vi troviamo uomini di classi sociali umili? No. Ciò che chiamiamo “storia” è fatto e scritto da una piccola minoranza dell'umanità, fatta da uomini ricchi. Tutti gli altri fanno “silenzio”.

Ovunque e in ogni tempo, pezzi di umanità fanno silenzio: le donne, le classi sociali subalterne, le etnie oggetto di processi di inculturazione. In tutti questi e altri casi il silenzio è categoria storica inflitta ai gruppi subalterni dalle culture e dalle classi dominanti.

C'è una parabola siciliana che racconta l'origine del silenzio delle classi sociali subalterne, raccolta nel Modicano alla fine dell'Ottocento [i] .

“Una volta il Parlare e il Mangiare litigarono fra di loro e non riuscendo ad accordarsi andarono dal re Salomone perché dirimesse la questione.

Il re disse: - Sentiamo un po' quali sono le ragioni di questa lite.

- Maestà, litighiamo perché mentre la Vista, l'Udito e l'Olfatto hanno ognuno due casette, io che sono il Mangiare e questo mio compagno, che è il Parlare, siamo condannati a stare come i ladri, incatenati mani e piedi e tutti e due in una sola casa. C'è giustizia? Ora quello che desideriamo è di essere separati e di avere assegnata una casetta ciascuno; ma la bocca tocca a me, perché sono il Mangiare e se non ci fossi io in questo mondo tutti i cristiani e tutti gli animali potrebbero cantare il requiem aeternam.

- E tu che cosa hai da dire? – domandò Salomone al Parlare.

- Io dico che la bocca tocca a me perché io sono più nobile e senza di me non ci sarebbe differenza alcuna fra l'uomo e il pidocchio. Perciò, Maestà, se dobbiamo abitare entrambi in una stessa casetta il padrone devo essere io e lui deve essere il servo.

- State a sentire, ché adesso vi metto d'accordo io – dice il re Salomone – Tu che sei il Parlare dominerai incontrastato nella bocca dei ricchi, perché essi hanno il mangiare assicurato e se non parlassero non avrebbero nulla da fare; e tu, o Mangiare, puoi spadroneggiare a piacer tuo nella bocca dei poveri, perché i poveri meno parlano e meglio è. Dividetevi quindi le bocche degli uomini e non pensate più a litigare.

Questa relazione parla delle dinamiche dell'imposizione del silenzio: a chi viene imposto e perché. Parla del silenzio del popolo omosessuale e transgender nella storia e nell'attualità, descrivendo alcune delle caratteristiche del ghetto che la società dominante ha costruito per noi. Parla, infine, della necessità di dotarci di una strategia funzionale al dovere storico di uscire dal silenzio.

 

2 - L'altro

 

In ogni tempo, in ogni luogo, in ogni cultura, qualcuno di noi viene confinato nelle regioni dell'alterità. Egli diventa un altro, l'altro.

La produzione dell'altro è essenziale al mantenimento di una società, come la nostra, che si regge su meccanismi rigidi di inclusione/esclusione e sulle gerarchie che ne conseguono.

Uno dei dati che può essere assunto a elemento unificante della diversità culturale sta proprio nella esigenza di strutturare e classificare l'universo naturale e sociale e la quotidianità in cui viviamo. Questa strutturazione e classificazione vengono realizzate attraverso l'impiego della dicotomia ordine-disordine.

Il lavorio culturale di strutturazione comincia con l' appropriazione mentale dello spazio, tramite la quale si distingue una natura selvaggia dal villaggio umanizzato. La prima è vista come sede del caos, del disordine, il secondo è sede dell'ordine, della civiltà, dell'ordinarietà, della normalità. La dicotomia ordine-disordine tenta di stabilire limiti nitidi e precisi in quelli che sono margini malcerti tra due universi che sfumano l'uno nell'altro e le bipolarità morale-immorale, salute-malattia, naturale-degenerato sono altrettante declinazioni che derivano da questa dicotomia.

Il disordine, il caos, non vengono però solo collocati nello spazio fisico, ma anche personificati. Le frontiere di questo “altro”, potenziale apportatore di disordine e di morte, non smettono mai di avvicinarsi e di assediare sempre più da vicino i confini della “normalità”, minacciando il gruppo che si vorrebbe preservato dal pericolo radicale della contaminazione.

Alla topologia immaginaria si associa una serie di figure che si muove all'interno stesso dello spazio civilizzato. Figure comuni, oggetto di diffidenza e timore in ragione della loro differenza, dello status sociale inferiore, fonti di sospetti, vittime di accuse.

Per la sua autoconservazione, per riprodurre nel tempo la sua struttura ideologica e sociale, ogni cultura crea i suoi mostri. Il mostro ha il compito, in ogni tempo e in ogni luogo, di assumere su di sé il male del mondo, con conseguente funzione liberatoria per i “normali”.

Le figure del disordine circolano quindi nella società dei “normali”, occupando la periferia del campo sociale. Personificano l'irruzione del disordine in un universo ordinato, o almeno la possibilità di essa, per cui meritano quell'inferiorità che costituisce pena e monito ove si pensasse a tendenze eversive dell'organizzazione e dei suoi valori dominanti.

Molte sono le figure che hanno assunto il ruolo dell'altro: storicamente altre sono apparse come se fossero ontologicamente altre: l'omosessuale, la prostituta, il drogato, i quali hanno incarnato la tensione gerarchizzante di quella parte della società che si è auto-eletta punto di riferimento e custode assoluta dell'identità-normalità-umanità.

L'alterità però non è un dato ontologico. Si è altri sempre rispetto a qualcuno o a qualcosa che si costituisce punto di riferimento e fonte di parametri.

Ognuno di noi può essere altro se spostiamo il baricentro di riferimento, ma è più funzionale alla logica del potere pensare che gli altri siano esclusivamente gli altri e che l'alterità sia connotata di indiscussa inferiorità. Un esempio che appartiene alla nostra storia viene dalle forme di rivolta sociale (brigantaggio e occupazione delle terre)  nell'Italia post-unitaria. La cultura ufficiale diede del brigantaggio una spiegazione funzionale alle esigenze della borghesia e del potere che, impegnato nella repressione della diversità meridionale, richiedeva anche una legittimazione ideologica. Il brigante assumeva quindi le vesti dell'”altro”, diventando, nella rappresentazione del potere, feroce, primitivo, sanguinario, storicamente  appartenente a una cultura inferiore e i meridionali in genere dovevano essere rappresentati come biologicamente inferiori. Nella relazione Massari sul brigantaggio si affermava, tra l'altro, che i briganti usavano cibarsi di carne umana e mangiavano il cuore dei loro nemici, mentre l'antropologia positivista di quegli anni si affannava a cercare prove su una presunta inferiorità genetica dei calabresi. [ii]

Degenerazione, malattia, inferiorità genetica, criminalizzazione: questi i parametri con cui l'altro viene rappresentato nel linguaggio dominante.

Costituitasi storicamente come supporto e legittimazione del dominio, il concetto e l'ideologia dell'alterità hanno veicolato una gerarchia di saperi, copertura di una radicale gerarchia di poteri. La possibilità di designare le categorie e stabilire chi vi appartiene è infatti un fatto di potere. C'è una citazione di Goebbels molto significativa a questo riguardo, rivolta al regista ebreo Fritz Laing che contestava l'attribuzione razziale a lui diretta: “Signor Laing, siamo noi che decidiamo chi è ebreo” [iii] . La definizione, la designazione dell'altro in quanto “altro” non è un processo a due vie, simmetrico, reciproco, di andata e ritorno. E' univoco perché il vettore del potere è unidirezionale. Quindi il gruppo eterosessuale definisce l'omosessuale, creando il “problema” e trasformandolo in oggetto di studio, non viceversa. I bianchi studiano i neri e non viceversa.  I ricercatori della classe media di Manhattan creano l'oggetto di studio dell'abitante del ghetto nero, non viceversa.  La relazione sociale e di potere crea la differenza o quanto meno la connota. Con la scelta di un tratto fisico vero o inventato che diviene marchio biologico vengono create categorie di “altri”, presentate come naturali.

All'altro viene imposto il silenzio. Il potere più importante è quello della simbolizzazione tramite la parola, del nominare cose ed eventi, del dire e comunicare l'esperienza trasformandola in patrimonio sociale condiviso.

I discorsi non sono attività spontanee, ma insiemi di pratiche, regole, ambiti (articolati con le altre pratiche economiche, sociali, giuridiche), libere solo in apparenza poiché dietro di esse sta l'insieme di regole, costrizioni, tabù (quel che il soggetto può dire e che dell'oggetto può esser detto) che ne definiscono i limiti.

I discorsi sono il luogo in cui quel che si dice confina con quel che si tace e la mappa del dicibile e del tabù segue linee di demarcazione socio-culturali ben precise.

Ne consegue che i silenzi sono altrettanto significanti dei discorsi nel definire i lineamenti del meta-discorso complessivo sulla realtà.

Il silenzio imposto sulle vite e le vicende del popolo queer attraverso la storia ci induce a parlare di “storia nascosta” [iv] . Testimonianze del desiderio, di relazioni omosessuali da parte di gente comune, di scrittori e artisti sono state distrutte dal potere (i verbali dei processi per sodomia venivano distrutti nei roghi assieme alle loro vittime) o dai parenti o amici preoccupati di “difendere la reputazione” di familiari omosessuali. Alla storia delle lesbiche è stato imposto un silenzio doppio in virtù sia del loro orientamento sessuale che del loro genere. Omosessuali e transgender finiscono per essere così, per l'azione repressiva del potere e l'auto-repressione operata dalle vittime a fini di sopravvivenza, gruppi privi di qualsiasi traccia di eredità culturale.

 

 

3 – Lo stigma

 

La marchiatura attraverso un segno rende riconoscibile e individuabile come potenziale fonte di pericolo, agli occhi dei “normali”, l'”altro” che circola nello spazio sociale. Questo segno è lo stigma.

Due sono i significati della parola “stigma”:

1)                 il primo si riferisce al segno fisico, di solito inscritto nel corpo (biologicamente o applicato da un'autorità sanzionatrice) che indica una devianza rispetto a una norma sociale;

2)       il secondo significato si riferisce all'atteggiamento morale di condanna che investe i   portatori di segni di devianza. [v]

Essere colpiti da stigma vuol dire uscire dai valori della normalità, non usufruire della protezione della propria comunità, in cui si è considerati corpi estranei, ed esporsi al complesso meccanismo di premi e punizioni che si attua attraverso il controllo sociale. Una delle pene consiste nella definizione del proprio essere e delle proprie azioni come devianti.

Nonostante si presenti in vesti obiettive, quella di devianza non è definizione puramente constatativa. Essa è definizione valutativa, che distribuisce e discrimina gli individui secondo una progressione gerarchica o una contrapposizione dicotomica buono-cattivo, normale-anormale, sano-malato, intelligente-folle e così via.

La società stabilisce quali parametri debbono essere usati per suddividere gli individui in categorie e quale complesso di attributi deve essere considerato normale ordinario e naturale nel definire l appartenenza a una di queste categorie. Davanti a un estraneo è possibile che il suo aspetto immediato ci consenta di stabilire in anticipo a quale categoria appartiene e i suoi attributi.. Se l'estraneo possiede attributi non rispondenti alle aspettative e che lo rendono diverso dagli altri, viene declassato da persona completa a persona segnata, screditata. L'attributo che determina il declassamento è lo stigma: può essere una mancanza, un handicap, una limitazione.

La persona che non si confà ai ruoli sociali sanciti dall'appartenenza al  suo sesso biologico, determinato in modo convenzionale dall'osservazione dei genitali esterni, è oggetto di stigma.

 

Lo stigma può riguardare diversi aspetti:

 

-          il fatto di modificare il proprio corpo per renderne gli attributi simili a quelli dell'altro sesso

-          il fatto di usare abbigliamento o trucco allo stesso scopo

-          il ricoprire ruoli sociali dell'altro sesso

-          l'avere un orientamento sessuale non rispondente alla norma eterosessuale

-          il fatto di esibire contemporaneamente attributi fisici dei due sessi

 

Possiamo scomporre lo stigma in diversi elementi:

 

o        l'essenza, cioè il contenuto dello stesso

o        la norma morale violata

o        i segni con cui si manifesta nella società dei normali

o        le imperfezioni derivate da quella originaria

o        il pericolo che rappresenterebbe per la società

 

Per definizione si crede che la persona con uno stigma non sia propriamente umana. Mettiamo in piedi una teoria dello stigma, una ideologia atta a spiegare la sua inferiorità e ci preoccupiamo di definire il pericolo che una persona stigmatizzata rappresenta per la società. C'è la tendenza ad attribuire una vasta gamma di imperfezioni a partire da quella originaria e a volte ad affibbiare attributi desiderabili ma non desiderati specie di natura soprannaturale (speciale sensibilità dei transgender).

 

 

4 - Atteggiamenti e comportamenti sociali di fronte allo stigma.

 

Lo stigmatizzato tende ad avere le stesse credenze riguardo all'identità, che hanno i normali. Avendo interiorizzato attraverso l'educazione i criteri che la società più ampia impone per essere persone, lo rende consapevole delle sue mancanze e ciò provoca in lui la convinzione di non riuscire ad essere ciò che dovrebbe. Ciò può portare all'odio di sé e all'autodisprezzo.

Altri comportamenti sono la vittimizzazione e l'attribuzione degli insuccessi nella vita allo stigma invece che ad altre ragioni (crearsi un alibi, ottenere vantaggi secondari).

Lo stigmatizzato seleziona accuratamente le occasioni sociali dove mostrarsi. Il timore che altri possano non aver rispetto della persona stigmatizzata può comportare perenne insicurezza nel contatto interpersonale e autoconferma della sua inferiorità.

Comportamenti tipici di fronte alla derisione sono l'ostilità provocatoria e la timorosa sottomissione.

Ad un certo punto del suo percorso, lo stigmatizzato incontra una o più persone “normali” comprensive e sagge, pronte ad appoggiarlo e a condividere la convinzione che egli sia un essere umano normale malgrado le apparenze. Sono persone che si presentano come portavoce di fronte a un pubblico di persone normali, esponendo le esigenze degli stigmatizzati e, se fanno parte del gruppo, offrendo un modello di realizzazione tipico della persona normale.

La “carriera morale” di una persona stigmatizzata segue alcune fasi  che possono essere tipizzate come segue [vi] :

1)       interiorizzazione del punto di vista delle persone normali e acquisizione delle credenze che la società più grande ha sull'identità e un idea generale di cosa voglia dire avere un particolare stigma;

2)       apprendimento di essere in possesso di un particolare stigma e quali ne possano essere le conseguenze;

3)       da un certo momento in poi il problema è quello di controllare l informazione su se stesso. L'obiettivo è quello di mostrare una parte di se stessi, quella compatibile con le aspettative sociali. La persona selezionerà con cura le occasioni sociali in cui potersi presentare per come si è mentre cercherà di “passare” (per normale) nelle altre occasioni. Una parte dell'informazione viene trasmessa attraverso simboli (es l'anello matrimoniale). L'informazione sociale trasmessa da un particolare simbolo può avallare una particolare pretesa al prestigio, allo status. Sono simboli di prestigio o di status. Opposti sono i simboli di stigma, che hanno particolare efficacia nell'attrarre l'attenzione verso qualche discrepanza che svaluta l'identità.

4)       La fase successiva è quella in cui si impara ad affrontare il modo in cui gli altri trattano il tipo di persone cui può essere assimilato.

 

 

5 - Stigma e identità sociale.

 

E' la società a stabilire quali assi percettivi e concettuali debbano essere usati per dividere le persone in categorie e quale complesso di attributi debbano essere considerati ordinari e naturali nel definire l'appartenenza a una di quelle categorie. Questi attributi servono a costruire l'identità sociale di una persona estranea ancor prima di poterla conoscere e di verificare se questi attributi le appartengano effettivamente. Ci fidiamo delle supposizioni fatte trasformandole in aspettative normative e quindi in pretese inequivocabili.

E' tipico non rendersi conto del fatto che siamo stati noi a stabilire quei requisiti ed è altrettanto tipico che non siamo coscienti della loro natura finché non siamo costretti a decidere se corrispondono o no alla realtà.

Solo in determinate circostanze diventa possibile accorgerci del fatto che durante tutto il contatto con quella persona ci siamo affidati a certi presupposti su come dovrebbe essere la persona, che non corrispondono alla realtà. Chiamiamo identità sociale virtuale il carattere, le caratteristiche i requisiti attribuiti sulla base di una norma stabilita a priori in base alla categoria di appartenenza della persona. Chiamiamo invece identità sociale attuale della persona la categoria a cui possiamo dimostrare che appartiene e gli attributi che è legittimo assegnargli.

L'identità sociale virtuale e le stereotipie entrano in gioco  con persone rientranti in categorie molto vaste e con cui si ha un contatto fugace. C'è una credenza popolare secondo la quale quando il contatto interpersonale si fa più stretto, tale approccio categoriale regredisce per essere sostituito da comprensione, solidarietà e giudizio realistico sulle sue qualità personali. Il settore in cui è necessaria l'amministrazione dello stigma riguarda principalmente la vita pubblica,  il contatto tra estranei o tra semplici conoscenti, un termine della progressione che ha al suo opposto il rapporto intimo.

Malgrado queste credenze non è detto che la familiarità riduca il disprezzo. Come spiegare ad esempio che spesso sono le persone con cui si è in intimi rapporti quelle a cui gli stigmatizzati nascondono la loro situazione? E' ciò che succede spesso nel campo dell'omosessualità, dove si trova spesso più comprensione e dove ci si rivela con più fiducia di fronte a estranei che di fronte a familiari.

 

 

 

6 - Screditati e screditabili: un gioco di specchi

 

Nel caso di persone con uno stigma non visibile immediatamente, possono darsi due possibilità di esistenza, dal punto di vista della consapevolezza reciproca (soggetto-società) sul possesso dello stigma.

Una possibilità è quella del soggetto screditato, cioè di colui il cui stigma è visibile e conosciuto da tutti. L'altra possibilità è quella dello screditabile, cioè di colui il cui stigma non è conosciuto alla società più ampia.

Le conseguenze sullo stile di vita dei due modi di vivere lo stigma sono rilevanti. Il problema fondamentale dello screditabile è il controllo dell'informazione su se stesso e la sua minorazione in contesti di interazione sociale. Si traduce in dilemmi del tipo: mettere in mostra o no, dire o non dire, lasciar passare o non lasciar passare, mentire o non mentire e, in ogni caso, a chi, come, quando e dove.

Lo stigmatizzato screditabile, quindi non immediatamente visibile, nasconde, o crede di nascondere, l'informazione sulla sua vera identità sociale e riceve un trattamento fondato su false premesse. L'informazione è trasmessa dalla persona anzitutto attraverso il corpo e nell'immediata presenza di coloro che ricevono il messaggio. L'informazione di questo tipo viene chiamata sociale. Alcuni segni trasmettono l'informazione sociale in modo continuativo e sono chiamati per questo simboli, Ad esempio l'anello matrimoniale. I simboli si distinguono dai segni occasionali in quanto sono stati istituzionalizzati come mezzi per trasmettere informazioni.

E' possibile che certi segni che hanno un significato positivo per un gruppo abbiano un significato negativo per un altro. Ad esempio le spalline che certi secondini attaccano sulle spalle dei detenuti propensi all'evasione. Per gli altri detenuti può essere simbolo di eroismo.

Nella nostra società un ruolo particolare spetta al carattere informativo che ha l'”essere con”. Essere in compagnia di qualcuno vuol dire trovarsi in sua compagnia in una circostanza sociale, passeggiare insieme a lui, andare a mangiare insieme e così via. In certe circostanze l'identità sociale della persona con cui si trova il soggetto può essere utilizzata come fonte di informazione proprio sulla sua identità sociale.

Screditabile e screditato hanno problemi diversi. Il problema cruciale per uno screditabile è quello di controllare  l'informazione su se stesso che viene portata all'esterno, in modo intenzionale o meno (impedire un flusso incontrollato di informazioni rivelatrici della propria condizione e del proprio stigma e controllare cosa dire, a chi, e in quali occasioni sociali).

Il problema cruciale dello screditato è invece quello di controllare la tensione che si genera nel corso degli incontri sociali.

 

 

7 - Saggi e garanti

 

Nel corso della sua vita tribolata, presto o tardi lo stigmatizzato incontra una o più persone che, pur appartenendo al mondo “normale” e quindi non portatori di stigma, hanno comprensione e sono pronte ad appoggiarlo e a condividere con lui la convinzione che egli sia un essere umano “essenzialmente normale” malgrado le apparenze e i pregiudizi esistenti sulla categoria alla quale appartiene. Chiamo queste persone comprensive, saggi o garanti.

Uno dei loro compiti è quello di presentarsi come portavoce di fronte a un pubblico di persone normali; espongono le esigenze degli stigmatizzati facendosi promotori di sentimenti nuovi che introducano nella società dei normali una diversa considerazione dello stigmatizzato. I saggi sono partecipi in qualche modo della vita segreta dello stigmatizzato con cui sono a contatto per vincoli di amicizia parentela o altro, e in un certo modo può finire col diventare membro onorario del gruppo degli stigmatizzati.

E' probabile che, per diventare saggia, una persona debba aver compiuto un'esperienza particolare a contatto con la realtà dello stigma, che, attraverso un decentramento del punto di vista, abbia prodotto in lui/lei una rivoluzione copernicana nel significato attribuito allo stigma e quindi nei suoi atteggiamenti di fronte allo stigma. Un'esperienza, cioè, rivelatrice, che gli abbia permesso di mutare parere  in rapporto al punto di vista del mondo dei normali cui appartiene.

Una tipologia di persone sagge comprende chi è in contatto con lo stigmatizzato attraverso la struttura sociale. Esempio: la fedele consorte del malato di mente, la figlia dell'ex detenuto, il genitore del paralitico, l'amico del cieco, i familiari del boia sono tutti costretti a condividere parte del discredito della persona stigmatizzata con la quale hanno legami.

Un esempio ci è dato dalla piccola posta di un giornale:

“Cara Ann Landers,

sono una ragazza di dodici anni e sono esclusa da tutte le attività sociali perché mio padre è un ex detenuto. Cerco di essere gentile e cordiale con tutti, ma non serve a nulla. Le mie compagne di scuola mi hanno detto che le loro madri non vogliono che mi frequentino perché ciò danneggerebbe la loro reputazione. Mio padre ha avuto una pessima notorietà grazie ai giornali e, anche se ormai ha scontato la pena, nessuno lo dimenticherà mai.

Cosa posso fare? Mi sento molto triste, perché non è bello davvero essere sola. Mia madre cerca di portarmi di qua e di là con lei, ma io voglio stare con i miei coetanei. Per favore dammi un consiglio.

Un'esclusa” [vii]

In generale la tendenza che ha uno stigma a diffondersi dallo stigmatizzato alle persone a lui vicine spiega perché si tenda a evitare tali rapporti o dove esistono a interromperli.

Un altro aspetto da notare riguardo all'atteggiamento dei saggi, è che la loro prestazione di garanzia non è illimitata. Molto spesso queste persone serbano dentro di sé un conflitto potenziale tra i due sistemi di valori ai quali sentono di aderire: quello dominante e quello oggetto di tabù, il che fa sì che la loro solidarietà possa essere interrotta nel momento in cui mette in gioco interessi più elevati nella vita del saggio. In altre parole, c'è un limite alla capacità del saggio di compromettersi per uno stigmatizzato. Quando i due sistemi di valori entrano in conflitto, chi ci rimette è l'anello più debole e ciò porta il conflitto a concludersi  con l'abbandono dello stigmatizzato. Ciò fa sì che lo stigmatizzato viva in una situazione di perenne insicurezza e paura di essere “scaricato” e, sul lavoro di essere licenziato non appena la situazione lo renda l'anello debole della catena. Ci si sente allora di trovarsi in una situazione di accettazione condizionata, soggetta in ogni momento a revoca ad opera di un potere esterno e superiore.

 

 

8 - Redenzioni esemplari

 

A volte chi ha uno stigma riesce  a raggiungere un'elevata posizione professionale e sociale. A questo punto, gli si apre una nuova carriera: quella di rappresentare la sua categoria presso i normali, come una sorta di ambasciatore. La sua storia diventerà emblematica, ci troviamo davanti a un eroe dell'assimilazione, riuscito a entrare per primo in campi nuovi o dove in precedenza  gli appartenenti al suo gruppo di stigmatizzati non erano mai stati accettati.

Il redento sta a cavallo di due mondi: quello dei normali ai quali è aperto l'intero ventaglio delle possibilità, e quello del suo gruppo di stigmatizzati, che preme per un riconoscimento che non è mai totale. Di qua e di là, a entrambi i gruppi, egli sembra lanciare un messaggio. “La nostra condizione non è una condanna: possiamo essere come voi”, sembra dire ai “normali”, “profondendo impegno è possibile salire la scala sociale ed essere cooptati dalla società dei normali”, è il messaggio rivolto ai suoi compagni e contenuto nel sottotesto della sua storia esemplare.

 

 

9 - Accettazione condizionata dello stigmatizzato e spazi consentiti.

 

 E' difficile che lo stigma, per quanto grave, arrivi a determinare l'annullamento totale dei diritti e delle possibilità di vivere di una persona. In genere la società arriva a escogitare una soluzione che, mentre dà ai “normali” la garanzia sul fatto che la violazione del tabù non arriverà a turbare la continuità dell'ordine simbolico, ne tranquillizza le coscienze avendo garantito comunque allo stigmatizzato modi e spazi (ghetti) per esprimersi. Questi modi e spazi sono ovviamente più ristretti rispetto a quelli di cui godono i normali. Così agli omosessuali è consentito esistere ed esprimersi purché:

·         Non diano “scandalo”, cioè non si sappia in giro

·         Non ostentino (vale a dire rinuncino alla validazione sociale dei loro legami affettivi)

·         Accettino di definirsi “malati” adottando un codice di comportamento e di comunicazione conseguenti

·         Accettino la decurtazione di diritti quali la possibilità di avere una famiglia tutelata dallo Stato

Per la società dominante la richiesta di parità di diritti, e quindi ogni iniziativa che ne è mezzo e fine e che comporti la fuoriuscita dal ghetto da parte del mondo LGBTQ è vista come sfida intollerabile. “Per non dimenticare mai” è il romanzo di Riccardo Di Salvo e Antonio Eredia [viii] , che narra la storia di Alfio e Michele, due ragazzi amanti trovati morti (suicidio od omicidio) in un contesto omofobo. A condannarli a morte non è stata genericamente la loro omosessualità, ma la loro “omosentimentalità”, cioè la pretesa di amare e di uscire dal ghetto segregante che li condanna a essere consumatori di sesso senza sentimento. La società, infatti, arriva al paradosso di “tollerare” gli omosessuali quali soggetti dalla “sessualità anomala”, purché restino nel loro ghetto e non pretendano di essere considerati nella loro interezza di soggetti capaci di sentimenti al pari di qualunque persona di qualsiasi orientamento sessuale.

A questo proposito vale la pena di spendere qualche parola sull'ostilità che suscita la socializzazione del vincolo affettivo omosessuale.

Quando nasce un vincolo amoroso, i partner sentono la necessità di socializzare l'evento, mostrandolo alla propria “famiglia sociale”. L'abbraccio, il tenersi pubblicamente per mano e il baciarsi pubblicamente sono i documenti che testimoniano il vincolo offerto allo sguardo collettivo e lo sottopongono alla validazione del gruppo nel proprio spazio sociale.

Il poter essere protagonisti di questo rito della socializzazione del vincolo, che fa parte delle tradizioni che culturalizzano il legame affettivo, è un diritto irrinunciabile della persona, che viene garantito dalla cultura di appartenenza nelle modalità previste da quest'ultima.

L'isteria e talvolta la violenza di chi si oppone a questo diritto fondamentale, quando si tratta di legami omosessuali, significano amputazione del proprio valore di persona e di essere sociale.

Ci sono poi altri ghetti che rinchiudono gli stigmatizzati. Uno di questi è un ghetto linguistico e riguarda la modalità di tradurre l'esperienza vissuta in parola significante e circolante, attraverso un codice condiviso. La parola: senza la parola scambiata, senza la parola che circola, non c'è identità possibile, e i confini della persona si dilatano fino a perdersi. Lo spazio della parola, della narrazione condivisa di sé, diventa spazio relazionale e politico. L'unico spazio di parola concesso dalla cultura dominante all'espressione dei nostri vissuti è lo spazio “medico” o “medicalizzato”. Il codice simbolico della medicina, con la conseguente attribuzione dello status di “paziente”, è la porta d'accesso per la legittimazione delle vite transgender. [ix] I transessuali possono essere reintegrati nella società e le loro vite acquisire significato agli occhi della società dominante, solo attraverso questo codice, che ha la funzione di rendere l'esperienza e il vissuto transessuale dicibili e comunicabili al resto della società. La “dignità” concessa dal sistema ad una persona transessuale si rivela essere quindi, in ultima analisi, una dignità di livello inferiore.

 

 

10 - Scatole cinesi: lo stigma nello stigma

 

A volte i “diversi”, gli stigmatizzati,  vengono accettati, purché non “troppo diversi”. Ad esempio, persone transessuali che al termine della transizione non recano tracce visibili del genere di provenienza godono di una ampia accettazione sociale. Per capire come ciò possa accadere, bisogna ricordare che il pregiudizio non è un fatto assoluto, ma addenta come una sanguisuga una qualche condizione di vulnerabilità sociale. Condizioni di vulnerabilità particolarmente critiche per i transessuali sono, ad esempio:

·         Essere cittadini extracomunitari

·         Essere poco istruito/a

·         Non saper parlare bene

·         Essere disoccupato/a

·         Essere “brutto/a (= non “passare” rispetto agli stereotipi di genere vigenti)

 

 

11 - Paura e disgusto: 2 emozioni correlate alla condanna da stigma

 

Da dove nasce la paura e che funzione ha?

Non è vero che la paura verso il diverso sia istintiva. E' anch'essa un atteggiamento costruito socialmente. L'inconsueto genera piuttosto curiosità e non paura, provoca quindi piuttosto reazioni di avvicinamento più che di fuga o repulsione. La paura per sempre, la differenza che differenzia è un prodotto costruito. Studi di psicologia cognitiva hanno confermato che i bambini imparano la categorizzazione razziale dal linguaggio e non dalla percezione visiva. La loro conoscenza della razza come categoria verbale precede quella della razza come fenomeno visivo. La percezione visiva della razza deriva dall'idea della razza e non viceversa. I bambini in età prescolare possono provare paura o antipatia verso membri di una razza senza averli ancora visti, secondo quanto trasmesso dall'ambiente. Si impara dunque ad avere paura rispetto a una categoria socialmente definita e nominata prima di essere vista e percepita.  E' molto importante questo concetto anche nel campo dell'omosessualità. Quando troviamo paura, lì è una spia che abbiamo a che fare sempre con un diverso non conosciuto [x] .

Alla paura si mescola il disgusto. Anche il disgusto non è un sentimento istintivo, ma è costruito culturalmente. Il disgusto è uno strumento di primaria importanza per la interiorizzazione dei divieti culturali cioè un mezzo importante di socializzazione del li individuo. Si tratta di una socializzazione negativa attraverso la quale cioè l'individuo impara ciò che non deve essere, ciò da cui deve distanziarsi e che connota invece altri gruppi sociali. Il disgusto è da questo punto di vista una potente forza culturale che trasforma l attrazione in repulsione. Es. l'attrazione verso le feci. Sono processi cognitivi che non passano necessariamente per la parola. I bambini hanno infinite possibilità di osservare in svariate situazioni gli atteggiamenti di disgusto degli adulti e segnatamente dei genitori, espresse verso gruppi e individui considerati inferiori.

 

 

12 - Le barzellette etniche, razziste, omofobiche, maschiliste: perché dire no. La nullificazione dell'altro stigmatizzato attraverso le barzellette.

 

Da che mondo è mondo l'uomo ride delle debolezze altrui. L'ironia, il sarcasmo, l'umorismo sono una componente fondamentale della comunicazione. Ma di che tipo è il riso stimolato dalle barzellette e dalle storie comiche?

In genere vengono rappresentati difetti, fisici o spirituali, dei quali poi si ride con modalità, intensità e significati diversi. Un tipo di umorismo molto diffuso è quello delle storielle di tipo etnico. “Quanti……….. ci vogliono per cambiare una lampadina?” Secondo alcune persone, l'umorismo che si serve dell'appartenenza a un'etnia come presupposto della sua forza comica è sempre avvilente e produce danni emotivi alle vittime delle battute. Altri si dichiarano in disaccordo sostenendo che l'umorismo etnico fornisce un allentamento della tensione tra gruppi mentre assolve alla sua funzione di  innocuo e giocoso pretesto di intrattenimento e di divertimento.

Umorismo come offesa, insulto e umorismo come sdrammatizzazione del problema. Tra riso e derisione, quindi, attraverso una gamma completa di sfumature. L'umorismo può veicolare un'ampia gamma di metamessaggi  dal significato contrastante.

Ci sono due modi di rapportarsi all' alterità che suscita ironia: uno è quello di riconoscere in essa una parte di se stessi, e l'appartenenza dell'altro e del soggetto-io a una comune umanità. In questo caso si ride dell'altro perché si ride delle proprie debolezze, viste riflesse in lui. L'alterità viene addomesticata, inglobata nel gruppo del “noi”. Questo è riso d'accoglimento.

L'altro modo di ridere, dal significato opposto, è quello della derisione, che si esprime nel riso di esclusione. In questo caso all'altro vengono negati perfino connotati umani, il metamessaggio veicolato dal riso derisorio è “non apparteniamo allo stesso mondo”, tra me e te c'è un'alterità irriducibile a un comune denominatore. In questo caso si tende a mostrare l'altro come irriducibilmente inferiore e appartenente a un'umanità di serie B.

L'effetto sul piano relazionale e sociale dei due tipi di umorismo è opposto: il primo tipo è integrante, il secondo escludente ed emarginante. La società si è perciò dotata di regole (non scritte) sull'espressione dell'umorismo, una sorta di galateo che ci guida nel capire quando e come sia lecito veicolare messaggi umoristici.

In particolare esistono regole riguardanti la derisione, quella che genera riso di esclusione. Una delle regole del gioco sociale è quella del rispetto degli interlocutori, dei loro ruoli, delle loro maschere sociali, in tutte le situazioni in cui più persone si trovino in interazione. E' chiaro quindi che un umorismo che dia origine a un riso di esclusione, proprio per il suo carattere di negazione radicale dell'identità e della dignità dell'altro e quindi, potenzialmente, per il suo carattere distruttivo della socialità, non possa essere espresso liberamente senza generare “scandalo” e rituali di riparazione.

Per esempio, tutti convengono come sia senz'altro imbarazzante raccontare barzellette che ridicolizzino i marocchini in presenza di un marocchino, a meno che non ci si sia accordati in anticipo, tramite una metacomunicazione, sul modo in cui bisogna interpretare il messaggio.

In genere, risulta sconveniente raccontare barzellette o esprimere un umorismo che significhi derisione verso il modo di essere di altre persone, cioè verso una loro “diversità” non riconosciuta come comune al nostro mondo. In certi casi particolari e circoscritti, però, questo veto viene superato e ci si può esprimere liberamente anche con un umorismo offensivo e distruttivo. Questo accade ad esempio in occasione del carnevale.

Nel carnevale l'umorismo nasce dal rovesciamento dei valori. A carnevale si mettono alla berlina, quindi con un umorismo graffiante che genera riso d'esclusione, le gerarchie sociali, le autorità e i valori “seri”, e si instaurano gerarchie fasulle e invertite. Si sottolineano gli aspetti corporei dell'esistenza (alimentazione, sesso, evacuazione) dando così voce alle più profonde esigenze delle classi popolari offrendo loro una provvisoria occasione di vitalità e di libertà all'interno di sistemi sociali gerarchici nonché una via di sfogo all'aggressività a lungo repressa nel corso della vita sociale di tutti i giorni.

A carnevale risultano invertite le gerarchie sociali: chi, nello spazio-tempo della quotidianità, è in “alto”, viene portato in “basso”, e viceversa. I folli diventano re, i re diventano miserabili. L'oggetto della satira carnevalesca, per quanto graffiante, non è mai in pericolo di perdere la sua identità e la sua sostanza di essere umano, in quanto nella vita di tutti i giorni gode di una posizione salda e sicura, sul piano concreto e simbolico. Il sarcasmo carnevalesco si inserisce, anzi, in una strategia di stabilizzazione delle gerarchie sociali in quanto rende possibile, nel tempo del rituale e soltanto lì, il rovesciamento e la derisione, permettendo alle “vittime” e a chi sta “sotto” di trovare un momento di sfogo che le aiuterà a sopportare meglio le condizioni di oppressione che vivono nella quotidianità.

L'ironia contenuta nelle barzellette sui carabinieri non ne mette mai in pericolo l'identità, in quanto si inserisce in una quotidianità in cui i carabinieri godono di accettazione sociale e prestigio. Per questo viene comunemente accettata anche dai carabinieri stessi, i quali ridono volentieri di se stessi, assieme agli altri, con un riso d'accoglimento.

Se viene raccontata una barzelletta su Berlusconi in una sezione del partito comunista potete star sicuri che la gente intorno riderà di un riso di esclusione. Nessuno dei presenti riuscirà a vedere in Berlusconi la presenza di elementi di umanità comuni con se stesso, e il sarcasmo sarà del tipo più violento. Anche qui, però, si tratta di una forma di umorismo socialmente accettabile e accettata, in quanto ciò che succede nella piccola nicchia spazio-temporale creata dalla barzelletta su Berlusconi non mette in pericolo la dignità e l'identità di quest'ultimo, che gode di una posizione salda e rispettata al di fuori di questa nicchia (che, ricordiamolo, è una nicchia virtuale).

Diverso è il significato dell'umorismo derisorio quando questo viene diretto verso soggetti appartenenti a fasce sociali deboli, cioè a coloro che nella società si trovano in una situazione di svantaggio sociale se non di vera e propria oppressione. E' considerato di cattivo gusto, e pratica particolarmente violenta, raccontare barzellette su immigrati come se appartenessero a un'umanità di serie B. A questa categoria appartiene anche l'umorismo sulla base dell'orientamento sessuale, dove viene preso di mira e dileggiato un orientamento, quello omosessuale, e solo quello, come se fosse espressione di una forma inferiore di umanità. In questo caso l'orizzonte della barzelletta non si pone come rovesciamento carnevalesco, e quindi riequilibrante, di una situazione di potere, ma al contrario come surplus di denigrazione rivolto a soggetti che già nella vita reale subiscono dileggio ed emarginazione.

Le barzellette derisorie verso una particolare “categoria” di persone vengono raccontate in contesti sociali chiusi e coesi su base etnica o sessuale o ideologica, non in pubblico e non alla presenza di rappresentanti dell'etnia o della minoranza presa di mira. Questo è quanto accade normalmente. E' ipotizzabile che gli extracomunitari abbiano un intero repertorio di barzellette sugli italiani, che però evitano di recitare in presenza di questi ultimi.

Quando si tratta di omosessuali però, questa elementare regola sociale salta, e non si ha alcun ritegno. Mentre al momento di raccontare barzellette etniche ci si accerta che nell'uditorio non siano presenti persone appartenenti all'etnia derisa, quando si tratta di omosessuali queste regole saltano. Barzellette che ridicolizzano omosessuali e la loro sessualità vengono raccontate in modo spudorato davanti a tutti, perfino in televisione, senza preoccuparsi se nell'uditorio ci siano persone omosessuali che possano risultare offese e dando per scontato che la derisione dell'omosessualità accomuni tutto il gruppo come credenza che ne cementa l'identità e l'unità.

Nelle scuole ogni studente è costretto a sentire, giornalmente, dalle 10 alle 20 battute omofobiche al giorno.  Si usa l'appellativo di “finocchio” per insultare una persona senza manco sapere perché, solo perché si sente il proprio gruppo fare altrettanto. Per chi è omosessuale, questo costituisce un trauma ripetuto che è distruttivo della sua identità e della sua autostima. Quando si tratta di omosessuali, non c'è più alcuna forma di rispetto, saltano spesso tutte le barriere inibitorie sociali, soprattutto in ambienti maschili, giovanili, scolastici e anche adulti. Tutti sono chiamati a esprimere il loro schifo verso i “pervertiti” e guai se non ci si associa a questa forma spuria di “solidarietà” tra maschi: si rischia di venire emarginati dal branco.

In questo contesto sociale che fa da cornice, la barzelletta omofobica, così come quella a sfondo etnico, assume un significato sinistro di contributo all'annientamento dell'altro, della sua dignità e del suo patrimonio identitario.  L'altro oggetto di dileggio, non avendo uno spazio sociale dove poter esprimere la propria identità, non ha altra scelta che consegnarsi al silenzio e all'occultamento della propria natura, alla rinuncia al proprio inalienabile diritto all'autoespressione in una società che dovrebbe accogliere e far proprio il significato delle diversità invece di classificarle, giudicarle, demonizzarle.

A chi obietta che la partecipazione al riso in un evento come quello del racconto collettivo di storie comiche abbia un valore sociale e integrativo del gruppo del “noi”, occorre rispondere, sempre più forte, che si può stare bene insieme, e ancora meglio, se il riso viene provocato in seguito a dinamiche simboliche e comunicative che rispettino l'altro, che sia cioè un riso di accoglimento e non di esclusione, sorriso sull'altro che è in noi, e non derisione di un “altro” disumanizzato e nullificato che non ci appartiene.

 

 

13 - Le posizioni della struttura ecclesiastica cattolica

 

Le posizioni di Ratzinger e della chiesa cattolica romana sono chiare. Con una durezza che non ha pari rispetto ad altri gruppi umani e rispetto ad altre appartenenze, gli omosessuali vengono privati della loro sostanza umana attraverso tre categorizzazioni che si cumulano in un giudizio di condanna senza appello. Le categorizzazioni sono le seguenti:

1)                 gli omosessuali sono contronatura

2)                 gli omosessuali sono malati

3)                 gli omosessuali sono immorali (la negazione di un atteggiamento morale agli omosessuali equivale a negare la loro umanità, in quanto l etica è un comportamento autenticamente e genuinamente umano).

Il risultato di questa sommatoria è che gli omosessuali costituiscono l'altro non-umano, in contrapposizione al quale si definisce come “umano” il gruppo degli eterosessuali.

 

 

14 - Una percezione sociale distorta alla base delle discriminazioni

 

L'esistenza di uno stigma dà origine a una distorsione nella percezione sociale della persona che lo porta. La persona viene percepita non a tutto tondo ma in modo unidimensionale, come se l'attributo che è alla base dello stigma sia la caratteristica produttrice di identità e identificazione più importante tra tutte quelle che potenzialmente potrebbero essere scelte come fonte di identità per il soggetto. Ad esempio la percezione sociale distorta di cui sono oggetto le transessuali MtF le fa apparire, di volta in volta: fenomeni da baraccone, prostitute, deviati sessuali, malati mentali. Questa percezione può perdurare nel tempo in quanto il gruppo delle transessuali MtF è debole e poco visibile socialmente. Lo stesso tipo di logica e di schema percettivo-cognitivo è alla base del vedere i disabili anzitutto come “minorati”, prima ancora che come portatori di risorse la cui entità è apprezzabile su base individuale e dopo un vero incontro.

La distorsione nella percezione sociale crea un'identità sociale virtuale, che viene appiccicata addosso alla persona. Per arrivare all'identità sociale attuale della persona è necessario un incontro. Considerato che i campi sociali sono compartimentati, considerata l'esistenza di una serie di barriere culturali segreganti, arrivare a un incontro vero non è facile. Anzitutto, occorre l'occasione. Occorre poi un'interazione adeguata finalizzata alla comunicazione autentica e non alla manipolazione dell'altro a propri fini.

 

 

15 – Gesù: dalla parte degli stigmatizzati

 

Gesu viene al mondo tra i pastori. Ma non sono i pastori del presepio, no. La venuta al mondo di Gesù è una pagina politica. Guardando con occhio critico uno dei tanti presepi classici, ci rendiamo conto che non rispettano la verità storica, essendo manipolati in un elemento fondamentale:  la dimensione storica e culturale. Tutto è posto in una cornice naturalistica convenzionale: Gesù in una grotta (mondo della natura), tutto intorno pastorelli dai volti rubicondi. In realtà quel mondo edulcorato non è mai esistito: i pastori erano la parte stigmatizzata della società di allora. Ladri, "malati", immorali, "sporchi", erano l'"altro" disprezzato, apportatore di "disordine" e di pericolose istanze disumanizzanti per cui erano tenuti ben lontani dal resto della società. Morale-immorale, sano-malato, sporco-pulito, naturale-degenerato (tutte declinazioni della dicotomia "ordine-disordine") sono precisamente le categorie usate ancora oggi dalla struttura ecclesiastica cattolica per stigmatizzare ed emarginare omosessuali e transessuali. 

In realtà Gesù è venuto al mondo in un'abitazione costruita dall'uomo, non da un uomo qualunque, ma dai pastori. Era un'abitazione a due piani, dove al pianterreno venivano ricoverati gli animali, che durante la stagione umida venivano mandati a pascolare. Era allora d'uso in quel periodo affittare lo spazio reso libero. Gesù appare così non nel tempio del potere, e neanche in una grotta (che sarebbe elemento socialmente neutro), ma in un'abitazione costruita dall'uomo, e non un "uomo" qualunque ma un uomo con precisi connotati socio-culturali e quindi elemento simbolico  parlante di quel mondo pastorale maledetto dall'ordine sociale.

E' proprio con l'iscrivere la sua esistenza terrena all'interno di un ordine simbolico maledetto dal potere che Gesù firmò la sua condanna a morte.

Ed è proprio per la stessa ragione che il cristianesimo, diventato religione di stato, doveva cancellare i segni di questo affronto.

Ce l'hanno scippato ma, in realtà, Gesù appartiene a noi.

 

 

16 - Dallo stigma all'incontro autentico.

 

La società di oggi è omologante/escludente: include ma solo al prezzo dell'omologazione, della perdita delle identità. Mettere gli esseri umani in un rapporto di questo tipo, cioè accettarli solo se si omologano, è il contrario della creazione dell'armonia tra le persone. Armonia è diversità nei/dei rapporti. Contano le identità virtuali, le appartenenze, non le identità reali, che possono essere scoperte solo attraverso una rischiosa marcia di avvicinamento al, e di interazione con, l'altro.

Per l'incontro autentico, occorre partire dalla premessa che l'altro è un mistero. Se ci si disvela a vicenda, è possibile l'incontro. Occorre però offrirsi all'altro in verità, lasciarsi guardare negli occhi, consegnarsi allo sguardo dell'altro. L'offerta di autenticità è in dono più grande da portare nell'incontro. Crea l'inatteso, rompe le aspettative, costringendo il partner a uscire dalle stereotipie e a rivisitare il senso delle sue categorie mentali congelate in stereotipie.

 

 

 

 

 

 



[i] La parabola è riportata in: Luigi M. Lombardi Satriani, Il silenzio, la memoria e lo sguardo, Sellerio Editore, Palermo 1979

[ii] Cfr. Lombardi Satriani (1979), cit., pag. 54

[iii] Aneddoto riportato in Paola Tabet, La pelle giusta, Einaudi, Torino 1997, pag. xxx.

[iv] Cfr. Vanessa Baird, Le diversità sessuali, Carocci, Roma 2003, pagg. 41 e segg.

[v] La definizione è tratta da: Erving Goffman, Stigma. L'identità negata,  Ombre Corte, Verona, 2003

[vi] Cfr. Goffman (2003), cit., pag. 43 e segg.

[vii] Dal “Berkeley Daily Gazette, 12 aprile 1961, riportato in Goffman (2003), cit., pag. 41.

[viii] Riccardo Di Salvo, Antonio Eredia, Per non dimenticare mai, Aletti Editore, Villanova di Guidonia, 2005

[ix] Cfr. Diana Nardacchione, Transessualismo e transgender. Superando gli stereotipi, Il dito e la Luna, Milano, 2000.

[x] Cfr. Tabet (1997), cit. pag. Xxx.