XIV LEGISLATURA


PROGETTO DI LEGGE - N. 3031

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Onorevoli Colleghi! - Il diritto all'identità personale rappresenta, nelle società contemporanee, un bene giuridico di vitale importanza, sia per quanto attiene alle forme della soggettività, sia per quel che riguarda i processi relazionali tra l'individuo e la collettività, ovvero tra il cittadino e l'ordinamento normativo pubblico. In questa dimensione legislativa e culturale, per molti profili nuova rispetto alle più tradizionali concezioni dei diritti soggettivi e delle libertà in versione prevalentemente privatistica, si collocano recenti pronunce costituzionali e specifiche affermazioni espresse dalle Carte, europee ed internazionali, volte a sottolineare i significati più propriamente comunitari e sociali dell'identità personale e della sua stessa ontologia. Nondimeno, anche nelle posizioni istituzionali e giurisprudenziali più avanzate, si registrano rimarchevoli lacune e non poche contraddizioni. Così, se da una parte si tende a compendiare nella nozione di identità personale aspetti e componenti della struttura psicologica e della vita di relazione, finora inediti o trascurati (l'auto/eterostima, il ruolo all'interno del proprio contesto, eccetera), per altri versi emerge il rischio di scadere nel puro formalismo, enunciativo e dottrinale, che finisce per mortificare dati e referenti non meno essenziali. La questione del nome (o, più tecnicamente, del prenome) è, al riguardo, emblematica di un atteggiamento politico-legislativo decisamente ambivalente. Infatti, malgrado il nome rappresenti, praticamente da sempre, il fulcro medesimo dell'identità personale, o, secondo una più antica terminologia giuridica, il primo dei "segni distintivi della persona", non soltanto di esso si continua a fornire una prospettazione stereotipata e nozionistica (il mero "diritto al nome", statico ed autoreferenziale), ma, grazie a certe pseudo-riforme delle norme sullo stato civile, i diritti e le libertà che vi ineriscono risultano ancor più compromesse e stravolte. E' il caso delle innovazioni, decisamente peggiorative, introdotte dal regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396, che ha abrogato il regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238, ma che determina un regime giuridico e procedurale assai restrittivo in ordine ai presupposti dell'autorizzazione al cambiamento del nome e restituisce, ad un restaurato "Stato etico" di infausta memoria, il potere di ingerenza nella sfera delle scelte soggettive e, persino, del gusto individuale.
Orbene, considerando che l'articolo 22 della Costituzione sancisce il diritto al nome e lo eleva a rango di bene, tutelato dalla fonte primaria della legge, questo stesso diritto dovrebbe riassumere in sé tutte le sue possibili forme di manifestazione e di applicazione, ivi compresa la facoltà di cambiarlo, indipendentemente dall'essere, o apparire, "ridicolo, vergognoso (...)" (articolo 89 del citato regolamento) o comunque inscriventesi in situazioni di dileggio o compromissione del decoro personale. Tuttavia, è evidente come la libertà di scegliersi un nome diverso da quello imposto alla nascita non consista unicamente nel ritagliare spazi più estesi rispetto alla vigente regolamentazione ed alle attuali preclusioni, bensì finisca per implicare una radicale trasformazione, percettiva e politica, dei rapporti fra Stato-ordinamento e diritti civili, almeno in questo ambito.
Ciò si riflette essenzialmente nel salto qualitativo di cui beneficia la posizione dell'eventuale richiedente che, da portatore di un semplice interesse legittimo, sottoposto ad autorizzazione amministrativa (seppur formalmente affidata alla magistratura nell'ibrida veste della volontaria giurisdizione), assume il ruolo di titolare di diritti soggettivi, per di più personalissimi, dotati di ben maggiore protezione nei confronti del potere pubblico. La qualcosa, tra l'altro, assume ulteriore rilevanza specificamente dopo la sedicente riforma del 2000, che ha preteso di accentuare l'"amministrativizzazione" della procedura relativa al cambio del prenome spostandone la competenza dall'autorità giudiziaria al prefetto ed al Ministro dell'interno, esasperando, così, il controllo poliziesco su tali materie.
In secondo luogo, non è difficile constatare come, attestandosi uniformemente sull'imprescindibilità dei requisiti del nome "ridicolo, vergognoso, (...)", tanto il legislatore del 1939, quanto quello del 2000, abbiano inteso conferire all'istanza (o, dicasi pure, al desiderio) di scegliere un nome diverso da quello imposto alla nascita, una veste prettamente residuale ed eccezionale, ovvero esercitabile solo in presenza di fattori macroscopici di indecorosità e denigrazione lessicale in danno del titolare.
Riconoscere, allora, il diritto al cambiamento del nome, senza alcun limite, ossia in difetto di quei requisiti, e sancirne il libero esercizio riattribuito integralmente a chi ne sia interessato, non equivale soltanto alla piena attuazione dei princìpi contenuti (e garantiti) dall'articolo 22 della Carta costituzionale, ma concorre a normalizzare i contenuti e gli obiettivi della scelta individuale che diviene giuridicamente prioritaria e protetta da qualunque "affievolimento" di tipo amministrativistico. Con l'effetto, anche sul piano procedurale di invertire, in fatto e in diritto, i ruoli normativi tra richiedente e pubblica autorità, e segnatamente in ordine all'inversione dell'onere della prova, in tal senso, non è più compito dell'interessato dimostrare la sussistenza di elementi idonei ad ottenere il cambio del nome, bensì è l'organo, preposto a ricevere l'istanza, ad opporre eventuali motivazioni (gravi) ostative all'accoglimento della domanda. Infine, nella prospettiva del decentramento e delle autonomie territoriali, nonché dell'attribuzione di competenze esclusive in tema di stato civile all'ente locale, è opportuno individuare nel sindaco l'unico, naturale referente del procedimento di cambiamento del nome anche per chiare esigenze di snellimento burocratico e di semplificazione decisionale.
Agli stessi criteri inerenti la scelta del nuovo prenome deve, poi, corrispondere la procedura diretta ad ottenere anche il cambiamento del nome nel suo genere. Per molti versi, anzi, questa seconda tipologia di istanze abbisogna, attualmente, di una incisiva "civilizzazione" che, nel contempo, de-medicalizzi le problematiche esistenziali e giuridiche che sono a monte dell'identità personale in connessione all'identità di genere, e riduca, entro termini costituzionalmente accettabili, l'ingerenza dei poteri pubblici nella sfera della sessualità e dei comportamenti soggettivi.
Se, dunque, da una parte, de-medicalizzare (o, meglio, de-psichiatrizzare) l'ambito dei segni distintivi della personalità, ove questi debbano accordarsi anche ad una scelta di genere, equivale al definitivo superamento di ogni pregiudizialità patologica nei confronti di quanti si (auto) determinino a chiamarsi Maria, anziché Mario, o viceversa, dall'altra, reiscrivere tale aspettativa in un'ordinaria procedura da espletare presso gli uffici comunali, ne sancisce la natura giuridica esclusivamente civilistica.
Dal punto di vista normativo, codesta civilizzazione del cambiamento di nome anche nel genere, produce la netta separazione della questione della correzione anagrafica dall'ambito di incidenza della certificazione dell'attribuzione di sesso disciplinata dalla legge 14 aprile 1982, n. 164, e procedente dalla modificazione chirurgica degli organi della riproduzione.
Infatti, grazie all'affermata autonomia reciproca dei due procedimenti, la richiesta di cambiamento del nome non presenta più alcuna contiguità e/o subalternità rispetto all'insieme delle problematiche, segnatamente mediche, psicopatologiche, peritali e chirurgiche che restano di esclusiva competenza previsionale delle norme sul mutamento somatico del sesso e sui suoi effetti di stato civile. In questo senso, la nuova legge sul cambiamento del nome anche nel genere dimostra di andare persino oltre quelle, pur apprezzabili, "piccole soluzioni" che, sul modello della "kleine Losung" tedesca, consentono la modificazione onomastica del transessuale, pur senza la conversione chirurgica, vincolandola, però, alla sottoposizione ad accertamenti di carattere medico-psicologico. Del resto, non è casuale come tale procedura, denominata "piccola soluzione", si rapporti anche etimologicamente alla "grande soluzione", rappresentata dalla trasformazione chirurgica, ovvero resti invariabilmente inscritta nella logica patologistica della transessualità, configurandone soltanto un'ipotesi "minore" o meno grave.
Per contro, la nuova regolamentazione contenuta nella presente proposta di legge si muove sulla linea e sul modello dell'atto notorio: eliminata ogni indagine psicodiagnostica o clinica sullo stato psicofisico del richiedente, il supporto probatorio della scelta individuale è affidato esclusivamente alle sommarie informazioni fornite da tre testimoni, indicati dall'interessato, che siano in grado di evidenziare la coincidenza dello stile di comportamento di costui con l'istanza di cambiare nome anche nel genere. In più, rispetto alla procedura del semplice cambio del prenome, v'è la previsione dell'intervento del giudice tutelare, la cui partecipazione rimane rigorosamente circoscritta ad un controllo di legalità che, oltre ad assolvere esigenze di correttezza formale e di conformità ai princìpi generali dell'ordinamento giuridico, può rivelarsi utile a dirimere eventuali contrasti (o violazioni procedimentali) fra il richiedente e il sindaco o gli organismi comunali competenti.
Nondimeno, ed al fine di rafforzare il sistema delle garanzie a tutela dell'interessato, la proposta di legge prevede una forma di appello al tribunale competente per territorio avverso decisioni eventualmente sfavorevoli del giudice tutelare che possano essere affette da vizi di legittimità.
Sempre nell'ottica dei diritti soggettivi, la proposta di legge contiene norme a tutela della privacy, segnatamente per quanto attiene alla cancellazione del nome precedente, nonché riconosce il cosiddetto "diritto di pentimento", ovvero di ripristino del prenome originario, anche nel genere, qualora l'interessato intenda tornare all'identità personale assegnata alla nascita. Infine, per sopperire a possibili situazioni di emergenza in cui si manifesti la volontà del soggetto di ottenere un nome e/o un nome di genere diverso, sono previste ipotesi di cambiamento del nome in casi particolari con le relative specificità sostanziali e procedimentali.
Con questi obiettivi e con questi presupposti, la presente proposta di legge tende ad esaudire aspettative culturali, motivazionali e finanche estetiche ultrasecolari presenti nella collettività e mai riconosciute giuridicamente, almeno fino ad oggi. Il diritto alla scelta del nome, liberato dai limiti e dalle riserve di legislazioni comunque autoritarie, può fondatamente ritenersi che concorrerà a restituire alla persona una parte estremamente importante della sua capacità autodeterminativa, in consonanza con l'immagine esterna che ciascun cittadino intende ed intenderà costruirsi secondo le proprie attitudini e preferenze. Ad identiche esigenze potrà corrispondere la facoltà di cambiare nome anche nel genere, sia per consentire un'armonizzazione dell'Io e del Sé sociale senza l'obbligo (sovente, il ricatto) della sottoposizione ad interventi chirurgici devastanti e frequentemente non voluti, sia per definire, una volta per tutte, un nuovo diritto di genere, pluralistico e polimorfo, imperniato unicamente sull'identità (e l'immagine) personale, ovvero oltrepassante lo schematismo manicheo del sistema binario maschile-femminile.

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